È uscito di recente, a firma di John Foot, un articolo sulla rivista inglese London Review of Books (https://www.lrb.co.uk/the-paper/v43/n05/john-foot/on-the-barone) che prende di mira il baronato accademico italiano. Può darsi che questo articolo (ampiamente rimbalzato nei media di casa nostra) sia viziato dalla stereotipia fastidiosa che spesso accompagna i reportages giornalistici stranieri sulle realtà meno esaltanti di casa nostra. Può darsi anche che il barone e il baronato evocati da Foot siano un po’ demodées e rispecchino una fase del malcostume accademico non proprio aggiornata. Fatto sta che a questi difetti veri o presunti dell’articolo si sono subito attaccati tre cattedratici di casa nostra per controbattere (ovviamente ‘amareggiati e indignati’ contro il presunto qualunquismo di Foot e della stampa italiana) che la nostra università, negli ultimi anni, sarebbe cambiata parecchio (?) e in meglio (!), adeguandosi a standard di valutazione e a sistemi di reclutamento più oggettivi e trasparenti e migliorando la qualità e la quantità della ricerca. Ora, ammesso che alcune obiezioni di Favole, Ramella e Sciarrone (i tre coautori dell’articolo di replica a Foot apparso sulla rivista Il Mulino: https://www.rivistailmulino.it/a/in-difesa-dell-universit-italiana) siano fondate, esse ahimè guardano al dito molto più che alla luna. Gli ammodernamenti e gli adattamenti necessari del mondo accademico italiano non hanno infatti intaccato la struttura chiusa, feudale, sostanzialmente fuori e al di sopra della legge con cui la nostra università continua ad autogovernarsi. Non so se esistano ancora i grandi baroni del passato, quelli che con il loro solo potere individuale determinavano la vita di un istituto o di una facoltà. Ma di sicuro il sistema baronale, con tutti gli aggiornamenti inevitabili del caso, non è stato minimamente ancora scalfito. La parola chiave nella fattispecie è, appunto, sistema.
E l’esperienza che ho avuto, diretta e indiretta, dell’università italiana (nel mio caso delle sue facoltà umanistiche) mi ha confermato sempre e immancabilmente che l’ostacolo a un suo profondo risanamento, al superamento di nepotismi, clientelismi, localismi, cordate ecc., non è costituito da singoli individui o da isolate mele marce, ma dal sistema. Il male dell’università è, per dirla con una geniale espressione leopardiana, un male nell’ordine. Vale a dire che tutto il sistema universitario è guasto, infetto, malavitoso. Volente o nolente, chiunque lavori stabilmente all’università, dal cattedratico più influente fino all’ultimo ricercatore, partecipa colpevolmente – seppure in misura diversa – di quell’ordine. Da giovane ho provato, più per sfida che per convinzione, vari concorsi universitari a vari livelli e presso varie università del centro e del nord Italia. La percezione è stata sempre ed ovunque la stessa: non solo i vincitori erano già stabiliti in partenza dai docenti del posto e le commissioni erano tutte totalmente conniventi con la farsa cui si prestavano, ma poco ci mancava che i miei esaminatori non giocassero spudoratamente a carte scoperte nei miei confronti. Uno in effetti, una volta (un pezzo tuttora grosso e noto dell’antichistica nostrana), ebbe la faccia di dirmi papale a quattr’occhi che ero stato proprio un fesso a provarci sapendo come funzionava – dappertutto – la cosa. Del resto in questo blog la rubrica contra academicos conferma ad abundantiam, con dovizia di storie e di esperienze inequivocabili, quanto questo meccanismo di cooptazione ad excludendum sia oleato, infallibile, impermeabile, implacabile. Da meno giovane, cioè in anni recentissimi, ho avuto testimonianze di vari miei brillanti colleghi di liceo o ex alunni che hanno immancabilmente sperimentato (vivendo umilianti disavventure analoghe alla mia) quanto purtroppo – almeno nei dipartimenti umanistici – la realtà universitaria italiana sia rimasta nella sostanza immutabile. Insomma: affermare come fanno quei tre che le cose sono molto cambiate e che la baronia nella nostra accademia sopravvive solo come un fenomeno marginale o addirittura residuale, mi sembra davvero azzardato e fuorviante. Ma anche offensivo. Offensivo appunto verso tutti quei giovani di talento (ma senza appoggio baronale) che sistematicamente o scappano tuttora all’estero (se hanno studiato fisica o scienze) o debbono ripiegare sull’insegnamento medio (se hanno studiato lettere o filosofia). Offensivo pure verso quei meno giovani che hanno fatto carriera all’estero e non riescono in nessun modo, e a tutt’oggi, a rientrare (anche quando sono diventate autorità a livello internazionale) solo perché si sono messi fuori dal nostro sistema.
Per altro l’articolo di Foot inizia con il famigerato episodio dell’esame truccato di abilitazione linguistica di un noto calciatore, che non è certo notizia di trent’anni fa, ma dell’estate scorsa. E che, lungi dall’essere un aneddoto poco edificante, rispecchia (meglio: scoperchia) l’attitudine inveterata alla corruzione e al traffico illecito che è da sempre nel DNA del nostro ambiente accademico: quella che nessuna legge ha saputo (o voluto?) contrastare. Sia ben chiaro una volta per tutte: trattasi dei cromosomi del nostro ordine accademico. Non di singole persone che sbagliano. E se un male è nell’ordine, il rimedio passa solo attraverso il suo scardinamento. Il suo scompaginamento. La sua completa rifondazione ab imis. Chi tra i politici (che sono spessissimo universitari) avrà mai la forza di mettere mano a questa rivoluzione?
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