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Chi si salverà dal logorio della pubblicità invadente, fracassona e  politically correct di oggi? - Atlantico Quotidiano, Atlantico Quotidiano

Sbaragliate senza fatica tutte le altre religioni, la pubblicità è diventata il nuovo oppio delle masse. [pensiero giocato, oltre che sulla ripresa del noto motto marxiano, sulla identificazione tra religione e pubblicità]

La vera minaccia e la più impudente offesa alla nostra libertà sono le energie che oggigiorno siamo condannati a spendere inutilmente per difenderci dall’impunibile invadenza, sotto qualsiasi forma, della pubblicità. [pensiero più discorsivo, attualizzante ma fondato su di una polemica implicita verso una diversa concezione della libertà rispetto a quella dell’autore]

Chiedo scusa: mi piacerebbe incontrarmi e intrattenermi con qualcuno che non voglia vendermi qualcosa: è ancora possibile? [adagio, diciamo così, drammatizzato, discorsivo, travestito da battuta interrogativa rivolta a un interlocutore virtuale, in una situazione non ben precisata]

Come a frequentar preti si può perdere la fede, così a frequentar medici si perde la fiducia nella medicina.[adagio giocato su una similitudine imperfetta]

La politica è la continuazione degli affari con altri mezzi. [parodia o calco fraseologico di altro adagio famoso]

La civiltà è una bella torta: ce la siamo cucinata con pazienza per divorarcela in fretta. [adagio fondato su metafore]

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L'Orologio dell'Apocalisse fermo nel 2019, ma l'umanità è ancora qui -  Positanonews

L’economia attuale muove dal desiderio più che dal bisogno. O forse dal desiderio trasformato ad arte in bisogno. Insomma: dal principio del piacere. Compito della scienza è richiamare, nel modo più rigoroso e consapevole, al principio di realtà. Compito della scienza, perché la politica a questo compito ha ormai completamente abdicato. Tristo e sgradevole compito, ma necessario per un progresso e un benessere adulti e sopportabili. La sfida oggi è questa, più che mai. Oggi, che gli uomini sono mentalmente sempre più succubi del desiderio infantile gonfiato e titillato a (illimitata) dismisura dalle irriducibili illusioni dello sviluppo, mentre la realtà del mondo in cui vivono si avvia a diventare una sua arcigna, sempre più spietata, fustigatrice. Noi tutti si vive in una grottesca sfasatura. In una drammatica convergenza di processi opposti. Arriverà, temo, il punto di deflagrazione. Il corto circuito che innesca l’ecpyrosis universale. Forse ci siamo già arrivati, ma non riusciamo ancora a realizzarlo. La scienza deve avere il coraggio di svegliarci dal sortilegio prima che la scintilla fatale scocchi. Di richiamarci, come l’antico oracolo di Delfi, al senso smarrito del limite. Prima che quel limite ci si pari davanti come una muraglia invalicabile.  La scienza, proprio lei, con tutta la sua piccolezza e la sua urtante e grigia e fredda imperfezione. La scienza, con il suo compunto linguaggio da confraternita dei flagellanti. Cos’altro? Tutto il resto (quel che sopravviverà) verrà poi per un di più, se mai riusciremo – per mezzo suo – a salvarci.

Avremmo dovuto capirlo prima. Eppure già il vecchio Epicuro l’aveva capito: il principio del piacere (alias il desiderio) è il nostro dio e la nostra nemesi. Lo si può assecondare (e goderne) impunemente (cioè legittimamente) soltanto imparando a rinunciare. Semplice a dirsi. Ma complicatissimo a farsi, oggi più che mai, quando non bastano più gli anticorpi della saggezza individuale per difendersi dentro un sistema economico totale. Una locomotiva che, per perpetuare la sua corsa, deve tenere il motore del desiderio perennemente accesso, a pieni giri.

La scienza è neutrale, gli scienziati un po’ meno. Perché sono anch’essi fatti come noi di desiderio. Sono uomini. E gli uomini preferiscono, per istinto, la tenebra del desiderio al lumicino della scienza.

Attorno al rigagnolo vivo, ma esile e sussurrante della scienza gracidano i rospi della politica, squittiscono i ratti dell’informazione. Attingono a quell’acqua per farne, mescolandola alla loro liscivia spumeggiante, bolle di sapone. Bolle enormi, luminescenti, che deflagrano immantinente, aria nell’aria.

Solo l’arte e la poesia ci possono consolare delle verità della scienza. Solo la scienza ci può salvare dalle fate morgane del desiderio, e dagli incantatori che le eccitano dalle sabbie del deserto. Solo l’arte e la poesia possono fare di quelle fate morgane la materia di rivelazioni ingrate e, insieme, gratificanti ed utili. E perciò magicamente esorcizzarle. Smascherarle e riconoscerle rappresentandole. Trasformare le Erinni cieche del desiderio in docili, ragionevoli Eumenidi. E così agevolare il compito della scienza.

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Un politico che, per pura ipotesi, provocasse – prima – di sua iniziativa la crisi di un governo in cui ha sempre spadroneggiato sui suoi alleati e si atteggiasse – poi – a vittima di tradimenti, ribaltoni e congiure di palazzo, mi somiglierebbe molto ad un marito che, dopo aver tiranneggiato, tradito e infine cacciato di casa la consorte, si lamentasse poi che quella abbia immediatamente trovato un nuovo partner.

In Italia ha vinto, vince e vincerà sempre di volta in volta le elezioni quel partito che mostra di voler garantire impunità perpetua o quasi a quel 35% circa di evasori fiscali (ovvero sedicenti o immaginarie vittime del fisco) che da sempre, effettivamente, nel nostro paese comanda. Durerebbe pochissimo quel governo che per avventura o per sbaglio contrastasse questo potere effettuale.

I politici oggi sulla breccia confrontati con quelli di quando ero ragazzino (anni 60 e 70) commettono forse, più e meno, le medesime porcate, ma hanno smarrito ogni stile, ogni cultura, ogni idealità che non dico santifichi, ma giustifichi e indirizzi la loro prassi. Soprattutto è svanita ogni aureola esiodea di pudore e di vergogna che renda sostenibili alla vista le loro belle facce di … [Cara, vecchia ipocrisia democristiana…!]

I politici di oggi sono sì rapidamente biodegradabili, come i nuovi sacchetti della spazzatura, (e questo mi dà un ingannevole senso di sollievo) ma anche e purtroppo disperatamente interscambiabili: insomma tutti nella pratica (cioè nella loro prassi) sono uguali o assai simili. Forse perché la politica vera non esiste quasi più, soggetta come è a schiaccianti diktat economici planetari rispetto a cui bisogna o assentire o fingere di dissentire, i politici di oggi si differenziano tra loro soltanto fino al giorno delle elezioni. Corrottissimi allievi del marketing elettorale loro insegnato dai nuovi sofisti della comunicazione, quando vanno al potere non sanno o non possono fare quasi nulla per risolvere concretamente i maggiori problemi nazionali. Salvo apparire ogni giorno in tv da guitti e da istrioni, o pronunciarsi ogni momento sui nuovi media per promettere di risolverli. [Cara, vecchia, sobria, regolatissima, persino laconica tribuna politica di mezzo secolo fa!]

In questo momento i diritti civili (importanti) sono brioches, quelli economici e sociali (fondamentali) il pane. Non potendo nulla o quasi per garantire un’equa distribuzione del pane, i politici nostrani si accapigliano più spesso e più volentieri intorno alle brioches. Su questo almeno (sui gusti e sulle varietà delle brioches) ci si può distinguere con qualche tornaconto (dei politici) senza mettere le mani nelle casse dello stato…

Se la qualità della classe politica dipendesse dal grado medio di sviluppo, di scolarizzazione e di informazione della società che i politici rappresentano, allora i politici di adesso dovrebbero in teoria distanziare di anni luce i vari De Gasperi, Nenni, Togliatti. Siccome in pratica succede esattamente l’opposto, cioè che i politici di adesso non sarebbero degni neanche di lustrare le scarpe ai loro predecessori (pur non immacolati) degli anni ’50 e ’60 ecco che ne discenderebbe, paradossale ma automatica, la desolante deduzione che sviluppo, scolarizzazione di massa, informazione sono fattori di barbarie anziché di civiltà.

Se penso al significato estensivo della parola politica come « Linea di condotta accorta e astuta al tempo stesso, caratterizzata dalla capacità di destreggiarsi abilmente nelle situazioni e nei rapporti con gli altri: bisogna agire con un po’ di p.; ci vuole p.; è un uomo che ha molta p.  ecc.» (Treccani, Vocabolario online, s.v.) faccio fatica a riconoscervi i recenti, giovani mattatori della nostra scena pubblica: personaggi – tutti – di un’astuzia miope e di un demagogismo scoperto e miserevole, essi rimangono imprigionati nella loro iniziale e precaria immagine vincente al punto da ruinare con essa e per essa, del tutto incapaci di liberarsene con una onesta e coraggiosa ammissione di colpa o di errore. Più che la volpe di Machiavelli mi ricordano il Pellegrino di Luciano di Samosata, il santone impostore che, per rimanere fedele alla maschera di eroe spregiatore del dolore e della morte con cui si era guadagnato il favore del popolino, è costretto alla fine a gettarsi nel fuoco.

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Cattedratici universitari, abbarbicati oggi alla cattedra fin oltre i 70 anni, fremono e si indignano se il governo li vuole “prepensionare” (ihih!) a 68 anni.

Insegnanti di 60 anni di scuola elementare, media inferiore e superiore non ne possono più di insegnare e scrivono – inutilmente – petizioni su petizioni per poter essere messi subito a riposo, mentre la legge Fornero li ha inchiodati in cattedra almeno fino a 65-67 anni e, spesso, fino ad oltre 43 anni di contributi.

Paradossi, in apparenza. Ma spiegabilissimi.

Perché chi insegna per 40 anni ed oltre a bambini e ragazzini è logorato, esausto, sfinito dal rapporto sempre più impari con classi pollaio e con persone di età e di mentalità sempre più lontana dalla propria, oltre che da un crescente e preconcetto discredito sociale.

Chi occupa una cattedra universitaria, invece, vuole continuare a gestire in tutta tranquillità il suo potere, che significa soprattutto continuare a garantire – il più a lungo possibile –  posti e carriera a quelli della sua cordata.

Quando si parla di ‘professori’ – non è inutile ripeterlo – bisogna fare attenzione a distinguere bene tra le due categorie.

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Non so quanto ci sia di vero e di realizzabile nelle parole del sottosegretario all’istruzione Reggi sulla (ennesima!) riforma epocale della scuola che il governo Renzi starebbe per mettere in cantiere. Ma sicuramente la filosofia che la ispira (stando alle dichiarazioni di Reggi) è chiarissima.

Si vogliono trattenere gli insegnanti dentro le mura scolastiche per 36 ore la settimana, il doppio del tempo del loro attuale orario di lezione frontale (18 per le superiori); si vuole cioè far vedere che li si obbligherà a lavorare ‘come’ gli altri dipendenti pubblici; si sottintende quindi che adesso lavorano poco, che il loro è stato finora poco più che un lavoro part-time.

Niente di più falso: attualmente un insegnante lavora già (lezioni da preparare, compiti da correggere, autoaggiornamento, numerosissime riunioni, incontri, corsi ecc. ecc.) molto più di 36 ore la settimana. Che differenza faccia per l’utenza che egli continui a farlo in parte a casa (e con mezzi propri) o a scuola (dove questi mezzi non ci sono) è un mistero che non si spiega se non con l’intenzione propagandistica e diffamatoria di cui parlavo pocanzi.

Ma non è solo questa ‘nobile’ intenzione a spiegare la trovata delle 36 ore. Perché la propaganda diffamatoria (la storia ce lo insegna) prepara sempre una persecuzione reale.

E nella realtà le 36 ore vogliono essere una gabbia, un penitenziario all’interno del quale si potrà impunemente e invisibilmente procedere alla riduzione degli insegnanti allo stato servile. Perché nelle 18 ore eccedenti la lezione frontale non si lascerà tanto fare loro dentro le mura scolastiche e fra mille disagi materiali, quello che già fanno molto meglio a casa (preparare lezioni, correggere compiti ecc. ecc.), ma li si obbligherà ad accollarsi gratis molte altre attività che adesso si fanno, sempre più a fatica, raschiando il fondo del barile dei fondi d’istituto (sostituzioni di colleghi assenti per malattia, corsi di recupero, attività integrative, ricreative e progettuali varie, orientamenti ecc.)

Si prepara dunque per i docenti un’epoca di corvées a costo zero, umilianti in sé e ancor più intollerabili perché non accompagnate di fatto da nessun incremento stipendiale.

Quello che si racconta, infatti, sulle ‘premialità’ per i più disponibili (occhio: non si parla dei più bravi!) significa solo che pochi, pochissimi, all’interno degli istituti (scelti per di più a suo arbitrio dal dirigente) potranno avere degli incentivi: e, a quanto pare di capire, si tratterà solo di coloro che si renderanno disponibili a sovrintendere e coordinare quelle diverse attività di corvées.

Questa è l’unico scenario possibile (visti i tempi di vacche magrissime) che le parole di Reggi lasciano prospettare.

Se a questo si aggiunge che si sta meditando di ridurre il corso delle scuole superiori a 4 anni, tagliando ulteriori migliaia di cattedre, quella filosofia mostra al mondo intero le sue vere finalità.

Se poi si collegano queste dichiarazioni a quelle della ministra Giannini che annuncia l’assunzione di 16.000 nuovi ricercatori universitari nei prossimi 4 anni, ecco che non c’è bisogno di particolare malizia per capire da dove a dove (e col sudore e col sangue di chi) le poche risorse disponibili per l’istruzione si stanno spostando.

PS.: segnalo a proposito una petizione del collega S. Fina contro la ‘riforma’ Giannini in:

http://www.change.org/it/petizioni/al-presidente-del-consiglio-dei-ministri-matteo-renzi-no-alla-riforma-giannini-le-riforme-si-fanno-con-i-docenti-non-contro-i-docenti-la-riforma-giannini-%C3%A8-mortificante-per-i-docenti-inattuabile-pensata-da-chi-dentro-la-scuola-non-ha-mai-messo-piede

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Sostengo da anni, con qualche esagerazione provocatoria, che la scuola italiana – nella sua struttura di vertice – è l’ultimo baluardo dei totalitarismi ideologici del novecento. L’ideologia “totalitaria” che da qualche decennio la governa (o cerca di governarla) è un miscuglio di sottoprodotti derivati da dottrine psicopedagogiche e aziendalistico – bancarie. Uno scadente minestrone catechistico la cui ricetta viene continuamente aggiornata (come in 1984 di Orwell) da un apparato di burocrati-funzionari al servizio permanente e retribuito del ministero.

Questo torvo apparato, questo Comintern o Gran Consiglio dell’Istruzione – qui sta l’aspetto più inquietante, orwelliano appunto, della faccenda – non ha né volti né nomi.

Non è fatto di identità fisiche che debbano rispondere, a legittima domanda di sottoposti e cittadini, del proprio operato.

Questo apparato si manifesta tutt’al più per epifanie affidate a numinose sigle (INVALSI, INDIRE, POF, BES, TFA ecc.); o a indiscutibili parole d’ordine (interdisciplinarità, alternanza scuola-lavoro; strategia antidispersione, flessibilità oraria ecc.) che sono come le emanazioni demoniche di un ente supremo.

Il quale ente supremo, si badi bene, non coincide affatto con il ministro dell’istruzione. Costui (o costei) infatti non è altro che un amministratore delegato, una transeunte maschera umana di quell’apparato inamovibile, quasi metafisico, kafkiano.

L’ente supremo della scuola italiana si identifica totalmente con quell’apparato.

Un apparato aggressivamente parassita.

Nelle cui segrete officine agiscono (e mangiano) numerose figure intermedie tra il potere politico ed economico da un lato e la scuola dall’altro: trattasi di ispettori, consiglieri, pedagogisti, burocrati ecc. addetti a trasformare pressioni politiche e interessi economico-finanziari di parte in direttive logistiche e didattiche da imporre come verità rivelate all’intera scuola pubblica.

Esempio recentissimo fra i tanti di questo parassitismo: le prove INVALSI.

Migliaia di fascicoli pieni di cervellotici test a crocetta, tonnellate di carta rovesciate nelle segreterie e nelle aule della nostra scuola superiore, milioni di euro spesi per finanziare un baraccone che presume di valutare scientificamente la qualità dell’insegnamento medio a spese del lavoro gratuito degli stessi insegnanti medi. I quali sono costretti per legge (e non per contratto) a prestare ore e ore di lavoro gratis per la correzione dei test. I quali test potrebbero – sanguinosa ironia – decretare la loro inadeguatezza all’insegnamento…. Condannati costretti a portare la croce fino al luogo del patibolo. Senza cirenei. Solita beffa che scientemente viene aggiunta al solito danno.

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L’olio esausto e lurido dell’auto si cambia

per non farla grippare, non perché ci si aspetti

che l’olio nuovo fluirà per le vene del motore

puro e limpido in eterno. Se no, meglio

lasciarlo inutilmente chiuso immacolato

nell’urna vergine della sua lattina.

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Più autenticamente ricchi degli altri sono solo coloro che, più degli altri, hanno sofferto e sbagliato. Purché di sofferenza e d’errore abbiano fatto tesoro, non recriminazione.

Talmente rara è la gratuità nei rapporti umani che anche quando – per caso e indubitabilmente – essa si manifesta, desta il sospetto che chi la eserciti si senta, più e meno consapevolmente, in debito con la propria coscienza.

In Italia i privilegi propri sono diritti, i diritti altrui privilegi.

Non può (come vorrebbe invece Platone) un sottoposto o cittadino esemplare (cioè intelligente, zelante, onesto, competente ecc.) ambire con successo a diventare un capo o un politico, perché le qualità che si richiedono al capo e al politico di successo sono – soprattutto da noi – perfettamente antitetiche a quelle del sottoposto e del cittadino esemplare.

Più nociva di una pessima educazione è soltanto la delegittimazione esterna dell’educatore agli occhi dell’educando.

Il peggiore (e più infantile) delirio è quello di chi presume che il mondo sia fattibile e/o ordinabile ad immagine e somiglianza del proprio cervello.

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