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Posts Tagged ‘amore’

Das griechische und römische epigramm

[Orazio, Odi, I 22]

Sia integra la tua vita e senza ombra

di delitto: allora, Fusco, non ti serviranno

archi o giavellotti Mauri o una faretra

tintinnante di frecce avvelenate

– viaggia pure per le infuocate Sirti

o per il Caucaso deserto o per le lande

che l’Idaspe favoloso bagna. Un giorno

cantavo la mia Lalage in un bosco

di Sabina e vagavo spensierato

oltre il confine del campo, ed ecco

un lupo, io senz’armi, misi in fuga,

belva di quelle che non nutre

tra vasti querceti la mia Daunia

bellicosa né la terra di Giuba

riarsa nutrice di leoni.

Mettimi in magri campi

dove non c’è albero che goda

della brezza estiva, in un angolo

di mondo oppresso dalle nebbie

e dal clima più balordo.

Mettimi in quella terra senza

anima viva, sfiorata da vicino

dal convoglio del Sole: Lalage

sempre amerò, colei che dolce

sorride e dolcemente parla.

Limpidezza morale ed incanto di eros. Due capisaldi della filosofia oraziana fusi nella distaccata leggerezza di questa ode. Non si teme nulla e non si ha bisogno di nulla quando si dedica tutta la propria vita alla virtù e all’amore. Saranno loro – Virtù e Amore – a proteggerci ovunque e comunque da ogni minaccia, a regalarci una perfetta e serena autosufficienza. Una filosofia apparentemente semplice e minima di cui il poeta va però fieramente (aristocraticamente) orgoglioso. Qui, traducendo, non si può evitare – anzi bisogna conservarla – una certa alternanza tra registri alti e colloquiali, perché Orazio – citando con dottrina armi esotiche, luoghi geografici remoti, figurazioni mitologiche – vuole contrapporre ambiziosi viaggi e stili di vita avventurosi alla sua propria, appartata ed umile ma appagante, scelta esistenziale.

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Risultati immagini per bussetti e i compiti a casa  Risultati immagini per populismo scolastico

L’amore si fa in due. Il populismo si fa in tre. Un triangolo fatto d’amore e di odio (io, tu e il malamente).

Beninteso: se si vuole conoscere bene la lunga, a tratti nobile, storia della parola populismo bisogna leggersi almeno una autorevole pagina online della Treccani: http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/2014/Zanatta_populismo.html).

Ma se si vuole capire in termini spicci che cosa populismo significhi oggigiorno nella sua più degenere e divulgata accezione basta un semplice esempio tratto dalla cronaca scolastica recente. L’attuale ministro dell’istruzione annuncia una circolare secondo la quale i prof dovrebbero astenersi (o limitarsi molto) nell’assegnare agli studenti compiti per le vacanze natalizie.

Ora non entro in questa querelle ridicola (almeno per la scuola liceale) sui compiti a casa: perché sostenere che in un liceo si possa non farli (o farne molti di meno) è come dire che si possono giocare e vincere partite di calcio senza allenarsi, o che si può suonare in un concerto senza averne mai fatto le prove o altre simili amenità… I compiti a casa sono la digestione lenta, sofferta, rimeditata, personale, di ciò che si è masticato ed ingerito in classe. Se li vogliamo togliere, delle due l’una: o quello che si fa di teorico in classe viene espulso senza essere assimilato e si scioglie come neve al sole d’estate, o bisogna prolungare il tempo di permanenza a scuola per una digestione assistita, cioè per svolgere i compiti sotto la guida di un tutor. Questa seconda opzione, se attuabile (e se ben attuata), può funzionare anche meglio dei compiti domestici individuali, ma non azzera il carico di lavoro né, più di tanto, accorcia la durata dell’impegno scolastico complessivo; non credo comunque riesca a sostituirli in toto.

Ma lasciamo stare la questione dei compiti a casa e torniamo al versante populistico della faccenda.

Il gioco a tre funziona semplicemente così: la dirigenza della scuola (prèsidi, provveditori, ministri) ascolta con il cuore in mano tutte le preghiere e le rivendicazioni (le più assurde e strampalate e pretenziose e persino discordanti tra di loro) che provengono dal popolo della scuola (studenti e loro famiglie). Non sto parlando di quel popolo che chiede di studiare di più e meglio, di avere insegnanti più bravi e seri, di fruire di una scuola più attrezzata allo scopo ecc. Un popolo così meriterebbe orecchie molto attente. No, sto parlando di quel popolo che chiede a gran voce che si studi di meno, che si abbiano facilmente voti alti, pezzi di carta a buon mercato, sorridente assistenzialismo a tempo pieno ecc. Fin qui è tutto amore tra i due, tra il popolo e la dirigenza dico: un amore così grande, così puro, un amore così disinteressato… Ma c’è un terzo incomodo: gli insegnanti. Se questi non reggono la candela a quel platonico amoreggiamento, diventano giocoforza l’ostacolo alla felicità, il capro espiatorio di ogni pena amorosa, i Capuleti e i Montecchi tra Giulietta e Romeo, il bersaglio del disprezzo, della diffamazione, dell’odio. Nel triangolo populistico della scuola gli insegnanti stanno oggi alla dirigenza e alla utenza come le odiate élites della finanza e degli intellettuali o le spregiate orde degli immigrati stanno rispetto agli amorosi sensi che legano i capi carismatici di turno ai loro elettori. Ecco il populismo illustrato alle anime semplici. Così si spiega bene sia perché gli insegnanti oggigiorno (al di là delle scarse gratificazioni economiche del loro mestiere) si sentano così demotivati e misconosciuti nella loro vita professionale (anche quelli che l’hanno scelta per vocazione), sia perché siano così scesi in basso nella considerazione sociale. Il ministro che interviene sui media a lamentarsi dei troppi compiti a casa dice molto di più della piccineria che sembra dire in apparenza: dichiara non solo che lui (da amante tenero e premuroso), ha a cuore ed in cima ai pensieri il desiderio delle sue amate famiglie e dei loro vezzeggiatissimi figli di potersi godere in santa pace le vacanze di Natale accanto al focolare domestico (!); ma insinua altresì che quella pace è minacciata e ostacolata dalla cattiveria di un terzo incomodo, da persecutori malefici dei ragazzi, da aguzzini abietti e forse anche un po’ patologicamente ottusi nel loro sadico accanimento contro la gioventù.

Ebbene la scuola italiana degli ultimi decenni ha (dis)funzionato sempre così, come un formidabile laboratorio populistico di cui questa faccenda dei compiti per le vacanze è soltanto un minuscolo emblema. In questo ha anticipato e istradato la politica e la società. Una volta tanto non è rimasta indietro. Ha svolto anzi al meglio il suo decantato ruolo di preparazione alla vita.

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Dài una bandiera a un folle e la userà come un’arma. Anche contro di te.

La più sconcertante stupidità e abiezione di quanti vivono nel pregiudizio consiste in una infrangibile presunzione di intelligenza. Che sussiste e si rafforza solo condividendo il pregiudizio con altri individui, altrettanto stupidi e abietti. Perciò il pregiudizio, se non è diffuso, deve almeno – per sopravvivere – essere settario: non riuscirebbe mai, come la verità, a camminare sulle gambe di un eroe solitario.

Bisogna riconoscere al pensiero politically correct almeno un pregio: quello di predicare tra una massa di bruti un vangelo di bugie o di mezze verità utili, talvolta, ad alleviare qualche nostra inutile pena.

Amore è parola grande e preziosa e nobile che ne contiene molte altre, molto più piccine, vili, ignobili, persino indicibili.

A una persona dalle belle parole preferisco le parole di una bella persona.

A teatro, sere fa. I miei studenti recitavano l’Andromaca di Euripide. Stare a teatro (quando si fa buon teatro) è l’esperienza di un confine magico: quello tra la realtà e la verità. Noi, spettatori, – al di qua di quel confine – sprofondati (stretti nelle nostre poltroncine, soffocati dai nostri vestiti) nella penombra della realtà. Loro, gli studenti-attori, trasfigurati nella luce della verità, liberi di muoversi fuori dal tempo e dallo spazio in cui noi eravamo imprigionati. Ragazzi e ragazze che vedevo tutti i giorni ridere, strillare, scartocciare merendine, sfogliare libri, spettegolare, litigare… lì erano diventati carne e sangue, volto e voce di archetipi delle passioni e della sofferenza umana: Andromaca, Ecuba, Ermione, Menelao, Peleo. Altri da sé. Così, come straniati ciascuno, ma con tutto se stesso, nell’estasi del mito.

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Non è per caso che infinità e imparzialità dell’amore siano attribuiti dai teologi solo alla divinità. Non si può infatti, da umani, profondere amore verso qualcuno senza sottrarne o negarne – inevitabilmente – ad altri.

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