[Orazio, Odi, I 22]
Sia integra la tua vita e senza ombra
di delitto: allora, Fusco, non ti serviranno
archi o giavellotti Mauri o una faretra
tintinnante di frecce avvelenate
– viaggia pure per le infuocate Sirti
o per il Caucaso deserto o per le lande
che l’Idaspe favoloso bagna. Un giorno
cantavo la mia Lalage in un bosco
di Sabina e vagavo spensierato
oltre il confine del campo, ed ecco
un lupo, io senz’armi, misi in fuga,
belva di quelle che non nutre
tra vasti querceti la mia Daunia
bellicosa né la terra di Giuba
riarsa nutrice di leoni.
Mettimi in magri campi
dove non c’è albero che goda
della brezza estiva, in un angolo
di mondo oppresso dalle nebbie
e dal clima più balordo.
Mettimi in quella terra senza
anima viva, sfiorata da vicino
dal convoglio del Sole: Lalage
sempre amerò, colei che dolce
sorride e dolcemente parla.
Limpidezza morale ed incanto di eros. Due capisaldi della filosofia oraziana fusi nella distaccata leggerezza di questa ode. Non si teme nulla e non si ha bisogno di nulla quando si dedica tutta la propria vita alla virtù e all’amore. Saranno loro – Virtù e Amore – a proteggerci ovunque e comunque da ogni minaccia, a regalarci una perfetta e serena autosufficienza. Una filosofia apparentemente semplice e minima di cui il poeta va però fieramente (aristocraticamente) orgoglioso. Qui, traducendo, non si può evitare – anzi bisogna conservarla – una certa alternanza tra registri alti e colloquiali, perché Orazio – citando con dottrina armi esotiche, luoghi geografici remoti, figurazioni mitologiche – vuole contrapporre ambiziosi viaggi e stili di vita avventurosi alla sua propria, appartata ed umile ma appagante, scelta esistenziale.