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Posts Tagged ‘allegoria’

Diceva Montale che la poesia, se è inutile, quanto meno non fa male. In realtà non è proprio così, perché può anche fare un po’ male (a chi la scrive e a chi la legge) se – non sapendone decifrare il codice – il lettore la fraintende vistosamente.

Qualcosa del genere deve essere accaduto – appunto – ad alcuni miei amici/lettori di fronte a una mia poesia: Epifanie sgradite, compresa nella mia recente raccolta Zero termico.

Questo breve testo comincia con l’esternazione (tra l’affettuoso e il provocatorio) di un disagio: quello che qualche volta e inaspettatamente avverto incontrando miei vecchi compagni d’infanzia e di scuola perché essi di colpo mi appaiono – in confronto a come li ricordavo – tristemente invecchiati:  Cari amiche e amici, vecchi / compagni di scuola, come è sempre / sempre più triste, ogni tanto, / rivedervi. Scava indecenti solchi / nella vostra carne, come aratro / lucente le rughe sul volto / di un campo, l’acqua del tempo / e ridisegna – mi duole dirvelo, così, / francamente – scalene / geometrie, modella paesaggi / cespugliosi e tetri…

La poesia insiste poi per un po’ – esagerandoli volutamente in chiave scherzosa e grottesca – sui connotati fisici di questo invecchiamento. Salvo poi chiarire nel finale che quel disagio e quello sgomento in realtà sono il frutto di un totale rispecchiamento: le epifanie improvvise degli amici talora mi sgomentano un po’ in quanto identiche a quelle – di me stesso! – che talora mi sorprendono nello specchio dei bagni / all’autogrill.

Sono le mie epifanie che mi sono davvero sgradite, non le loro!

Quando la scrissi e la consegnai all’editore per la stampa ero convinto che questa poesia trasmettesse – attraverso la sua tonalità ironica e auto-ironica, ma anche profondamente malinconica –  un chiaro messaggio: la mia difficoltà ad accettare le ingiurie del tempo e della vecchiaia quando esse si manifestino riflesse in uno specchio reale o in quello – indiretto, ma altrettanto veritiero – dei volti di amici d’infanzia o di compagni di scuola. Questo era ed è – nella mia intenzione – il vero e più autentico significato di questi versi.

Ma poi è successo che qualcuno li abbia banalmente malintesi come uno sfogo gratuito e irrispettoso di fastidio e di misantropia senile verso vecchi amici e compagni di scuola….

La cosa mi è dispiaciuta non poco, ma – credetemi, cari amiche e amici e vecchi compagni di scuola – davvero non saprei bene come né di che cosa scusarmi con voi. Perché voi personalmente con l’ispirazione vera di questa poesia non c’entrate affatto: siete infatti niente più che un pretesto letterario, simboli speculari di me stesso facilmente intercambiabili – volendo – con altri (avrei potuto per esempio dire più genericamente: compagni di giochi di un tempo; niente sarebbe cambiato e nessuno – magari – si sarebbe offeso). Perché il senso di questa poesia, a chi lo legga scevro di pregiudizi permalosi e personalistici, è davvero tutt’ altro da come è stato frainteso da qualcuno di voi: dietro l’ironia un po’ tetra, scontrosa e provocatoria c’è infatti una notevole pietas, un senso amaro di impotenza di fronte al nostro comune (e naturale) destino.

Perciò non c’era e non c’è in questi versi alcuna intenzione offensiva. L’ errore vero che ho commesso è stata piuttosto l’ingenuità di non aver previsto – data la varia e imprevedibile sensibilità delle persone – un fraintendimento del genere.

Nemo poeta in patria, sarebbe il caso di dire a proposito di questo piccolo, spiacevole ma emblematico episodio. Succede infatti che tu scriva poesie (o racconti o aforismi) sulle donne, e alcune donne che conosci si risentano; che ne scriva sull’amicizia, e alcuni amici si risentano; sulla scuola, e alcuni colleghi si risentano.

Ora, la scrittura letteraria è sempre, a suo modo, un’operazione di sincerità e di verità, ma attenzione: la verità e la sincerità che una pagina di poesia o di narrativa ci possono schiudere non è quella che si muove sulla superficie del testo, ma in profondità; parole, immagini, situazioni di un testo letterario non rispecchiano parole, immagini, situazioni della realtà che circonda l’autore se non per diventare simboli fantastici di verità molto più ampie e universali, spesso ben altre rispetto al biografismo spicciolo che sembra averle ispirate.

Se noi leggessimo il sonetto celeberrimo di Cecco Angiolieri S’io fossi foco come l’espressione diretta e autobiografica di un odio mortale contro i genitori, le donne poco avvenenti, il papa, i cristiani, l’imperatore ecc., traviseremmo gravemente quel testo: sia perché non capiremmo la specificità del suo linguaggio (volutamente iperbolico, comico, ispirato al genere del vituperium), sia perché non percepiremmo che quelle parole così forti non vogliono esprimere altro che un baldanzoso e liberatorio anticonformismo rispetto alle convenzioni, alle istituzioni e alle gerarchie sociali del tempo, non uno sfogo personale diretto contro qualcuno.

Il fraintendimento di un testo letterario discende spesso da una sua interpretazione piattamente ‘letterale’ e ‘realistica’ (resa ancor più grave se il lettore – a ragione o a torto – crede di essere toccato personalmente da quello che legge): si travisa un testo letterario quando si pensa che l’autore scriva poesie e/o racconti per rispecchiare fedelmente la piccola, contingente, (spesso) provinciale realtà umana e sociale che lo circonda; come se si trattasse di pagine di diario, di confessioni, di resoconti, di ‘temi’ o ‘poesiole’ scolastiche dove si mette a nudo, senza diaframmi, se stessi. Come se si avesse a che fare con post lasciati, per sfogarsi, in un network.

Ma la scrittura letteraria non è affatto questo.

La scrittura letteraria interpone un diaframma molto consistente tra la realtà vissuta e la dimensione fittizia (fiction, appunto) dell’opera che la rappresenta.

La scrittura letteraria (specie quella poetica) è molto più difficile e ambigua di ogni altra perché moltiplica la distanza tra significante e significato, perché riempie le parole (i significanti) di significati più ricchi e inconsueti, molto meno im-mediati ed univoci della lingua della comunicazione.

La scrittura letteraria utilizza pezzi della vita e della realtà un po’ come le usa (se vogliamo credere a Freud) il nostro inconscio per comporre la sintassi dei sogni. E quello che i sogni sembrano dire in superficie – lo sappiamo – è abbastanza diverso da quello che significano in profondità. La scrittura letteraria, come la grammatica onirica, è etimologicamente allegorica, cioè – mentre sembra parlare di qualcosa a noi vicino– parla in realtà di qualcosa d’altro e di più profondo e di più universale.

Perciò il lettore dovrebbe accostarsi preparato al linguaggio poetico, sapendo bene di che cosa si tratta.

Altrimenti si rischia di scambiare lucciole per lanterne.

PS del 03.05.2016:

De me fabula narrabatur

Cari amiche e amici, vecchi compagni

d’infanzia e di scuola, chiedo sinceramente

venia: forse la penna ha tradito coi ghiribizzi

suoi la lingua, e il cuore. Non Voi schernivo

quando per celia Vi eleggevo a allegorie

viventi di dissesti e franamenti che il Tempo

nostro signore a noi tutti e del tutto

equamente ha dispensato. Era di me

solo che parlavo, della viltà soltanto

mia di misurarmi colla faccia sua

di Gorgone. Così, come il Perseo

del mito, vigliaccamente

accorto, ho abusato di Voi

del Vostro specchio: unica

sciocca, inutile astuzia

per provare a guardarmi

negli occhi ormai

vecchio senza

impietrare.

[da: Chiasmo apparente, LietoColle 2016 ]

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Chi fa letteratura non può che parlare di se stesso. Non ha altra fonte cui abbeverarsi o altro albero da cui nutrirsi se non quelli del proprio vissuto. Vale a dire l’immagine dell’uomo e della realtà che le lenti deformate della sua coscienza e della sua esperienza gli permettono di osservare. E tuttavia, quando maneggia letterariamente se stesso, l’autore deve farlo con la massima cura. Guardare e non toccare. Non farsene toccare. Osservarlo come attraverso un vetro infrangibile, dentro una teca o sotto l’occhio spesso del microscopio o del binocolo, come si trattasse dell’io e della vita di un altro. Oggettivarlo. Fatica ingrata e crudele. Ma indispensabile per creare qualcosa di buono.

La stessa legge vale per i grandi temi che emotivamente, istintivamente – come esseri umani – ci (scrittori e lettori) coinvolgono: la vita e la morte, il tempo e l’eternità, l’amore e l’odio, il bene e il male. Guai a trattarli troppo scopertamente. Senza nasconderli. Senza distanziarne adeguatamente – foscolianamente – la fiamma. Senza dissimularli dietro un disviante, torturante ‘parlar d’altro’.

Ma una volta fatto salvo questo presupposto irrinunciabile di straniamento e/o di allegoria – cioè d’apparente, astuta, disinvolta esibizione di distanza/estraneità rispetto a ciò che invece più ci sta a cuore – non c’è opera letteraria di qualche peso che non parli sostanzialmente di: vita, morte, odio, amore, bene, male ecc. Come non c’è autore che non parli, sotto qualsiasi forma, di se stesso.

Quando – per esempio – Giovanni Verga narra di Rosso Malpelo o dei contadini rivoltosi di Libertà, sembra prestare la sua arte a una funzione eminentemente storico/documentaria della Sicilia del tempo. In realtà la sottomette soprattutto all’urgenza di esprimere la sua propria (e tragica, e metastorica e, direi quasi, naturalistica) visione della società umana.

 

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