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Posts Tagged ‘Omero’

Ho fatto una fatica immane ad avvicinarmi alla conclusione di Auto da fé (“Die Blendung”: [‘accecamento, abbaglio, illusione’], Adelphi, Milano 2013) di Elias Canetti, ma l’ho finalmente terminato. Antiromanzo tremendo. Mattone indigeribile. Favola disturbante e claustrofobica. Tortura della mente e dello stomaco. Ingrata fantasia espressionista (e i suoi personaggi – mostri umanoidi, più che esseri umani – assomigliano molto alle torve caricature, ai deformi fantasmi di certa pittura espressionistica del primo novecento). Ma ho finito di leggerlo – dopo più di un anno. Ho voluto farlo, perché ne valeva comunque la pena. Metteva conto attraversare fino in fondo questo incubo ad occhi aperti perché ogni tanto esso mi ha gratificato con rapinose visioni – folgorazioni di profondità abissale. Mette conto immergersi nella melma repellente di questo lentissimo fiume soltanto per potervi ogni tanto setacciare enormi pepite, andarvi a caccia di grandi e lucide perle disperse dentro la vischiosa opacità del flusso narrativo.

Non voglio dilungarmi qui a recensire il libro di Canetti. Mi limito, come spesso faccio in questo blog quando parlo di classici, a citarne a margine un paio di passaggi che, nell’ultima parte, mi hanno parecchio colpito. Capirete presto perché.

Il protagonista, lo studioso Peter Kien, sinologo e bibliofilo monomaniacale che vive solo dei suoi libri e per i suoi libri – si abbandona nel finale a uno sfogo surreale ma durissimo contro il genere femminile:

«Sta per essere emanato un decreto concernente l’abolizione del sesso femminile. La pubblica affissione è prevista per domani. Lo renderà noto il portiere. La sua voce verrà udita da tutta la città, da tutto il paese, da tutti i paesi del mondo, fin dove giunge l’atmosfera terrestre, gli altri pianeti si arrangino, noi siamo oberati, oberati di donne, ogni tentativo di abrogazione viene punito con la pena di morte, l’ignoranza della legge non giustifica. Tutti i nomi di battesimo avranno desinenze maschili, la storia verrà riveduta per la gioventù. La commissione storica non dovrà faticare, suo presidente è il professor Kien. Che hanno fatto le donne nella storia? Figli ed intrighi!» (p. 437-438)

E poco dopo, spiando dal buco della chiave i movimenti mattutini dei coinquilini del suo palazzo, Kien definisce le donne che osserva passare e intrattenersi con uomini sul pianerottolo di casa «tante piccole Cleopatre pronte a qualunque menzogna, insinuanti, scodinzolanti, implorando un briciolo d’attenzione, promettendo amore e fedeltà, graffiando spietatamente la bella giornata piena che gli uomini s’accingevano ad affrontare, forti e preparati a suddividerla onestamente nelle sue parti. Perché simili uomini sono degenerati, vivono alla scuola delle loro mogli; essi, naturalmente, odiano le loro mogli, ma anziché generalizzare il loro odio corrono dietro alla prima donna che capita. Una sorride e loro subito si fermano. E’tutto un umiliarsi, un rimandare progetti, un allargare le gambe, un perder tempo, un mercanteggiare minuscole gioie!» (p. 442)

E aggiunge: «Le donne sono insopportabili e sciocche analfabete, un’eterna fonte di fastidi. Come sarebbe ricco il mondo senza di loro, un immenso laboratorio, una biblioteca zeppa di libri, un paradiso di lavoro intenso e ininterrotto!» (p. 442)

A chi conosca un po’ il teatro greco queste invettive misogine ricordano abbastanza, quantomeno per i toni iperbolici, quella di Ippolito nell’omonima tragedia di Euripide:

« Oh Zeus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dalle donne dovevi produrla: ma che gli uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case. Ora invece, per portarci in casa questo malanno, distruggiamo le ricchezze della casa. E da questo è chiaro che la donna è un grosso guaio, se il padre, che l’ha generata e allevata, aggiunge una dote e la colloca in altra casa, per liberarsi da un guaio! Chi si è preso questa terribile genia in casa, gode – sciagurato! – a ricoprire questo idolo maligno con ornamenti e vestiti, consumando le ricchezze della casa! Ed egli si trova in questa necessità, che, se si è imparentato con parenti di alto rango, deve tenersi e godersi una moglie odiosa; e se ha sposato una brava donna, deve tenersi inutili parenti e, col bene, sopportare un malanno. La cosa migliore è l’aver in casa una donna da nulla, ma almeno inutile nella sua stupidità. La donna saputa, la odio! Non me ne capiti in casa una, che pensi cose più grandi che a donna conviene. È proprio in queste donne intelligenti che Cipride ingenera la scelleratezza: mentre la donna semplice si sottrae alla follia per il suo poco senno. Bisognerebbe inoltre che alla donna non si avvicinassero ancelle, ma le stessero accanto solo muti mostri di fiere, perché non possa rivolgere parola ad alcuno e nemmeno, a sua volta, ascoltare i discorsi delle altre. Ora invece, in casa, le scellerate meditano disegni scellerati e le ancelle li portano fuori. (Ippolito, vv. 616ss.).

In entrambi gli autori l’estremismo delle tirate misogine arriva in effetti ad immaginare e a desiderare l’annientamento stesso del genere femminile, a fantasticare un mondo senza donne. Credo, per altro, che accostare artisti così lontani nel tempo abbia nella fattispecie un concreto fondamento storico-filologico: nel lungo delirio misogino finale di Peter Kien davanti a suo fratello Georg, il protagonista avvalora infatti le sue tesi citando a lungo Omero e accanendosi contro le molteplici figure femminili del mito classico quali emblemi del ‘male assoluto’: Elena, Clitennestra, Afrodite, Circe, perfino la povera, innocente Nausicaa e la fedele Penelope… Canetti conosceva bene, insomma, la letteratura classica e aveva ben presente il misoginismo greco mentre scriveva Autodafé.

Ebbene: se questi passi di Euripide e di Canetti cadessero sotto gli occhi miopi dei sacerdoti iconoclasti della cancel culture questi due capolavori della letteratura mondiale verrebbero senza esitazioni messi all’indice della loro chiesa fondamentalista…

Eppure Euripide e Canetti non sono autori ‘ideologicamente’, semplicisticamente misogini. Non direi proprio. Euripide in particolare è stato il tragediografo greco più attento alla psicologia femminile, alla sua inesplorata profondità, alla sua contraddittoria ma autentica ricchezza. Povertà di spirito e meschinità appartengono nel suo teatro solo ai personaggi maschili. Perciò l’Atene del tempo, largamente e profondamente ‘maschilista’, lo osteggiò sempre fino a costringerlo alla fine a lasciare la sua città. Perciò rovesciò addirittura su di lui, fraintendendolo completamente, la taccia di misoginia. Anche rinfacciandogli passi come l’invettiva di Ippolito. Ma quell’invettiva non è condivisa da Euripide. In quelle parole l’autore e il personaggio non coincidono affatto. Anzi, sono molto distanti.  

Ippolito, il personaggio, è un giovane immaturo, spaventato dal sesso. Indotto da questo spavento a rifugiarsi nel surrogato della passione sportiva e venatoria.  Quando scopre che la propria matrigna si è follemente invaghita di lui, Ippolito si straccia le vesti inorridito. Maschera la sua immaturità e la sua sessuofobia con un intransigente moralismo, con una presunzione di purezza agamica che è, in realtà, rinuncia alla propria integrità umana. Scappa via da Eros che lo insegue. Inveisce, in apparenza, contro il genere femminile: in realtà, contro la parte di se stesso che ostinatamente rimuove.

Euripide, l’autore, ha creato personaggi femminili indimenticabili, modernissimi, a partire proprio da Fedra, che non è la matrigna matura e libidinosa che concupisce il giovane e ingenuo figliastro, ma una giovanissima donna anche lei. Costretta contro natura a sposare un aristocratico attempato si innamora secondo natura del figliastro suo coetaneo. Da persona morigerata e educata al rispetto delle regole sociali quale è, combatte la propria passione e la reprime ferocemente, senza cedimenti. Ma nel frattempo una serva impicciona e cinica ha pensato bene di rivelare i sentimenti della ragazza a Ippolito. Fedra si uccide per la vergogna. Ippolito esplode nella invettiva che ho riportato sopra. I due non si incontrano mai sulla scena. Sono ciascuno la causa incolpevole della rovina dell’altro. La colpa vera, oggettiva sta altrove. Non tanto nella forza di Eros, ma nella violenza delle norme sociali della Grecia di allora. Di questa violenza Euripide era ben consapevole, a differenza dei suoi concittadini. E questo, con coraggio e spregiudicatezza, esibiva sulla scena teatrale, sotto il sottile e diafano velo del mito. Perciò era tanto vilipeso ed attaccato.

Il misoginismo di Canetti in Auto da fé sembra invece più aspro, viscerale, incondizionato. Tanto che è difficile capire, fino a un certo punto, se intercorra davvero una distanza (e quanta) tra autore e personaggio.

Peter Kien, il protagonista del romanzo, autorecluso nella sua passione esclusiva e solipsistica per gli studi eruditi e per i libri, sposa la sua governante – una persona orribile nella sua meschinità, avidità, cattiveria – soltanto perché ingenuamente persuaso che ella possa nutrire rispetto e premura per il patrimonio librario di lui. Lei invece è solo interessata a impadronirsi dei suoi beni, lo caccia addirittura di casa, costringendolo a una vita di miserevoli espedienti, in balia di volta in volta di loschi ed equivoci personaggi. È sulla base di questa catastrofica esperienza matrimoniale e della propria costituzionale incapacità di relazionarsi con il mondo e specialmente con l’altro sesso, che Peter Kien matura ed esprime a più riprese nel romanzo – e soprattutto nel monologo che ho riportato sopra – la sua insuperabile misoginia.

Neppure Peter Kien, tuttavia, è la perfetta controfigura del suo autore. Il quale autore, infatti – nello stupendo finale della storia -, si sdoppia visibilmente tra il protagonista e il fratello di lui, Georg: uno psichiatra che dedica la propria esistenza ai suoi malati offrendosi completamente a loro con empatia, umanità e benevolenza totali; un uomo che per altro ama riamato le donne, moltissime donne. E Georg arriva a casa del fratello Peter con l’intento (inutile) di riscattarlo dal suo disastro familiare e di curarlo dalla sua pazzia. La misoginia di Peter Kien, dunque, è condivisa da Canetti solo per metà: quantomeno è sottoposta ad uno sguardo molto critico, esterno, e risalta più che altro – nella sua radicalità – come componente della sua misantropia e come sintomo clamoroso della sua follia.

Dunque l’antifemminismo di questi personaggi (dell’Ippolito euripideo come del Peter Kien canettiano) è soprattutto la proiezione delle proprie autonome tare psichiatriche, della loro spaventosa in-completezza/in-compiutezza umana. Esso ha poco o nulla a che vedere con le idee (tantomeno con la realtà biografica) dei loro autori.

Ma forse tutto questo mio confrontare, ragionare e distinguere tra autore e personaggio parrebbe ai moderni (?), intransigenti guardiani del politically correct un tentativo sottile, pretestuoso, persino avvocatesco, di difendere l’indifendibile. Temo che essi condannerebbero comunque questi autori al ‘rogo’ insieme alle loro opere. Proprio come avveniva agli eretici e ai loro libri in tempi più oscuri del nostro con gli autodafé dell’inquisizione. E come effettivamente accade, coincidenza ironica del caso, proprio a Peter Kien – e alla sua immensa biblioteca – nel tragico finale del romanzo di Canetti…

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Leggere per non dimenticare: presentazione del libro "Odiare l'odio" di  Walter Veltroni
Il neopuritanesimo non è la strada della sinistra | About…

Non leggo mai libri in classifica, meno che mai quelli scritti da nostri politici. E tuttavia il titolo di un recente libro di Walter Veltroni Odiare l’odio, mi sconcerta e mi fa riflettere. Sconcerta perché il gioco di parole contiene una contraddizione in termini: se si odia il sentimento stesso dell’odio, infatti, quel sentimento, paradossalmente (per quanto indirizzato all’odio stesso) si afferma (e si ammette) di provarlo comunque: si dichiara insomma di non esserne esenti. Questo è il punto critico imbarazzante. Inoltre se l’odio è, come sono convinto che sia, parte integrante della natura umana e non lo si può estirpare senza mutilarla, ne consegue che l’odio verso l’odio non può essere altro che una forma di avversione (distorta, e potenzialmente addirittura patologica) nei confronti della natura umana nella sua integrità. Chi odia l’odio odia la natura umana.

Parlo di mutilazione e mi viene non per caso in mente Il visconte dimezzato di Italo Calvino. In quell’ apologo bizzarro e paradossale (per l’appunto) l’interezza dell’essere umano, il suo impasto irriducibile di bene e di male, viene scissa da un colpo di cannone e le due metà continuano a vivere separate: ma non sono più veri uomini, bensì un mostro di malvagità (ferina e immotivata) il primo e una caricatura di bontà (stucchevole e controproducente) il secondo. Sono insomma una dimostrazione per assurdo della insensatezza di ogni facile dualismo etico e, soprattutto, del rischio che comporta ogni tentativo, anche nobile, di sradicare il male dall’uomo riducendolo alla sua sola componente ‘buona’.

In altre parole chi odia l’odio è uno che vorrebbe riplasmare l’uomo ex novo. Retropensiero allettante ma pericoloso. Affermazione utopica, ovvero ultraideologica e potenzialmente totalitaria (non sto parlando a questo punto del pensiero di Veltroni, ma sto semplicemente deducendo conseguenze logiche generali dall’assunto espresso nel titolo del suo libro). L’uomo nuovo emendato dall’odio era l’obiettivo rivoluzionario del cristianesimo delle origini e sappiamo che in duemila anni di storia umana questo nobile progetto di rinnovamento spirituale e antropologico (almeno qui sulla terra…) ha dato scarsissimi frutti e ha prodotto anzi, in certe epoche, crociate e tribunali dell’inquisizione, oltre che un mare di ipocrisia. L’uomo nuovo – la palingenesi della natura umana – è stato altresì l’obiettivo principe dei totalitarismi e dei terrorismi vari del novecento. Sappiamo com’è finita.

Anche perciò chi – coram populo – dichiara guerra all’odio ed esalta l’amore va sempre guardato con legittimo sospetto.

Chi dichiara guerra all’odio e assolutizza il suo contrario potrebbe perseguire il secondo fine del dominio delle coscienze, cioè il più diabolico dei poteri (non per caso il Grande Fratello orwelliano aveva istituito il Ministero dell’Amore)

Chi dichiara guerra all’odio, inoltre, è uno che non vede (o non vuole vedere) le ingiustizie, le storture e le colpe che dell’odio costituiscono le radici profonde: di quelle radici l’odio è soltanto la chioma visibile. Se la si taglia lasciando intatte le radici l’albero ricrescerà.

Sì perché l’odio – semplificando senza voler rubare il mestiere a psicoanalisti e filosofi morali – è figlio di due genitori: l’uno è il disagio psichico soggettivo della persona (la frustrazione, l’insoddisfazione di sé, il difetto di autostima ecc) che si proietta all’esterno, l’altra è la ingiustizia oggettiva (nelle sue varie forme di oppressione, di conflitto, di sopruso e di violenza) nei rapporti umani, sociali ed economici.

Chi vuole sopprimere l’odio rinuncia, per ottusità o tornaconto, a capire e a curare il primo (il disagio psichico) e a sanare la seconda (l’ingiustizia). Si limita a condannarne o (peggio ancora) a perseguitarne e reprimerne l’effetto. A combattere la febbre anziché curare la malattia.

L’odio dell’odio insomma può nascondere la malafede di un disegno di potere (quando quel potere teme l’odio come reazione legittima alla sua ingiustizia), oppure un buonismo miope ed ottuso che può degenerare in un neo-puritanesimo aggressivo (ed essere pericolosamente strumentalizzato in chiave politica). 

E qui vengo al punto che mi preme personalmente di più.

Le nuove crociate contro l’odio potrebbero prendere di mira la grande letteratura. Sta già accadendo (è già accaduto) da varie parti qualcosa, ahimè, di molto simile e di profondamente inquietante.

Si stanno già condannando all’indice giganti della letteratura mondiale solo perché contengono personaggi, pensieri o situazioni non conformi ai nuovi totem (e tabù) del politically correct come il femminismo o l’ambientalismo o l’antirazzismo o l’anticolonialismo. Valori o ideali morali e civili – questi ultimi – nobili ed indiscutibili in sé, beninteso, ma che niente hanno a che vedere con la qualità o con l’essenza di un’opera d’arte.

Se questa assurda campagna moralistica di discriminazione letteraria si allargasse all’odio ecco che dall’epurazione non si salverebbe, tra i classici della letteratura, quasi nessuno: né l’Iliade dove gli Achei odiano i Troiani, né l’Odissea dove Ulisse odia (e stermina) i Proci, né Tacito che odia gli stranieri, né Dante che odia certi papi, né Leopardi o Verga che odiano il progresso ecc. ecc. (ma l’elenco potrebbe essere infinito). L’Orestea di Eschilo o l’Amleto di Shakespeare verrebbero radiati da scuole, librerie e biblioteche.

Sì perché l’autentica letteratura è lo specchio fedele (non certo il giudice morale) della natura umana. Perciò non esiste grande letteratura senza odio (e senza amore, certo: ma perché è il suo pendant complementare e naturale, l’altra faccia dell’odio stesso).

Prepariamoci dunque al peggio perpetrato, in nome del “bene” e dell’”amore”, ai danni della grande letteratura. A nuovi roghi dei capolavori del genio umano sull’altare dell’idiozia benpensante.

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Notte nazionale del Liceo Classico, recitazioni, concerti e degustazioni a  tema Eventi a Ravenna
Il Palmieri partecipa alla "Notte Nazionale del Liceo Classico" | Telerama  News

Nell’incipit dell’Iliade, dove si racconta che Apollo, offeso dall’empietà di Agamennone, scende dall’Olimpo con la pessima intenzione di sterminare gli Achei, la nera collera del dio è paragonata all’oscurità della notte:

[Apollo] scese giù dalle cime d’Olimpo, il petto gonfio di rabbia,

arco in spalla e faretra chiusa d’ambo i lati. L’ira lo ardeva:

dietro le spalle, ad ogni passo, le frecce tintinnavano.

E lui scendeva, nero come la notte.

[Il. I 44ss.]

In un celebre passaggio della Teogonia di Esiodo, dove si parla di tenebrose entità figlie del Chaos primigenio, spicca la progenie numerosa e davvero poco raccomandabile di Notte:

Notte partorì l’odioso Fato e la nera Kere

e Morte, e diede alla luce Sonno e generò la stirpe dei Sogni.

[…]

Notte funesta generò anche Nemesi, rovina

per gli uomini mortali; dopo di lei partorì Inganno

e Amore, Vecchiaia rovinosa e Contesa dal cuore violento.

(Es. Theog. 211ss.)

È curioso che proprio studenti e insegnanti del liceo classico, quelli che hanno (avrebbero) ancora il compito e il privilegio di conoscere e meditare direttamente questi antichissimi testi, rilancino oggi un archetipo così famoso e tradizionalmente spaventevole (e duraturo, con questo significato negativo, nel nostro immaginario e nella nostra cultura) in un senso diametralmente opposto rispetto a quello di Omero e di Esiodo. Da qualche anno a questa parte, nel liceo classico, Notte evoca infatti soprattutto l’evento più luccicante e mondano di questo tipo di scuola, la punta di diamante delle sue iniziative autopromozionali : La notte nazionale del liceo classico. Tutti i licei classici ormai celebrano la loro Notte. Ma per una sorta di enantiosemia la minacciosa oscurità, reale e metaforica, della notte omerica ed esiodea diventa, per questa occasione, la luce (artificiale), sfavillante e psichedelica, di un happening pubblicitario. Notte festosa e luminosa. E soprattutto illuminante. Sì, perché in questa notte speciale studenti e insegnanti, spesso agghindati in costumi d’epoca e tra colonne doriche di polistirolo, cercano di illustrare al mondo la appetibile vitalità del loro corso di studi offrendone al pubblico un catering di assaggini rapidi e sfiziosi: brevi performances teatrali e musicali di drammaturghi e di poeti classici, minirecital di Orazio e di Seneca – ma rigorosamente alternati, si badi bene, con pezzi di Beckett, De André, Shakespeare, Bulgakov e Jovanotti ecc… non accada che la gente pensi che il classico insegni ancora solo robe ammuffite e che proprio per questo stia meritatamente schiattando di decrepita vecchiezza… No, anzi, guardatelo bene! È ancora arzillo, persino ringiovanito, come i vegliardi delle Baccanti euripidee o il Demos di Aristofane! Vale la pena, insomma, frequentarlo perché – udite udite! – il classico di adesso è di tutto e di più: una scuola vecchia e nuova, antica e moderna, per almeno un paio di buoni motivi: primo perché l’antico è sempre attuale, visto che si può studiare anche sul computer; secondo perché, insieme al latino e al greco, al classico si insegna adesso anche tanto inglese e persino molta matematica, fisica e informatica, e si fanno pure tante altre attività integrative e ricreative…

Ma no, no, per favore, no! Raccontiamocela giusta, cari ragazzi ed ex colleghi della Notte: le cose non stanno propriamente così.

Da decenni il classico – si mormora malevolmente in giro – è un moribondo in prognosi riservata. In realtà, da un bel po’, io temo che il classico sia piuttosto (qui esagero per farmi capire meglio) un morto che cammina. Continuerà a camminare fino a quando qualcuno dall’alto non avrà la forza (e la spudoratezza) politica di seppellirlo. I pochi che si iscrivono ancora al classico sono sempre gli stessi, con lo stesso retroterra familiare e sociale e le stesse motivazioni: figli di persone che hanno frequentato a loro volta il classico; figli di una certa borghesia media o alta (molto più impiegatizia che imprenditoriale: insegnanti, medici, funzionari pubblici); qualche sparuto figlio di nessuno o di papà che avverte una vocazione speciale e precoce per le lettere e le arti e una concomitante allergia per la matematica; qualche ragazzino troppo timido e introverso che teme la giungla di una scuola tecnica o professionale… Questo è il piccolo bacino di reclutamento del classico – si badi bene: una pozzanghera residuale che si va prosciugando. Quasi nessuno sceglie(rà) questa scuola – non illudiamoci – solo perché folgorato dalle luci della sua Notte. Il classico, ahilui, è già defunto e non lo sa. Il latino e il greco si continuano a studiare, da anni ormai, più che altro per finta: tirando giù da internet tutte le traduzioni già bell’è pronte, da quelle dei testi classici a quelle delle versioni, fino alle singole frasette. Così quasi più nessuno (con alcune lodevoli eccezioni) suda e si allena sulle lingue antiche, questa palestra formidabile di metodo trasversale che gioverebbe ancora molto, se venisse davvero praticata a dovere, a tutte le altre discipline. Ma tant’è: nel classico-zombie-frankenstein di oggi il tempo per studiare il greco e il latino è sempre di meno e il peso – ineludibile – delle materie o degli argomenti più ‘moderni’ aggiunti, dei progetti à la page, delle varie attività extra è schiacciante. Il copia e incolla delle traduzioni rimane per molti l’unica scorciatoia. Il classico, quello originale, è morto. Pace all’anima sua. Morte (astruse, specialistiche, lontanissime dalla forma mentis di un ragazzo medio di oggi) sono le lingue che il classico si ostina ancora ad insegnare. Come si può realisticamente pretendere, lo dico sapendo di inimicarmi forse un po’ di gente, che in tempi come questi lo stato continui a finanziare una scuola del genere? In Europa e nel resto del mondo in effetti non esiste niente di simile. Il classico è morto, rassegniamoci. Nessuna magica notte lo risusciterà. Quello che resta doveroso fare, secondo me, non è tenerne ancora in piedi la salma imbalsamata, ma salvarne l’anima, raccoglierne al meglio la preziosa eredità. E l’eredità del classico può essere raccolta solo da una scuola liceale ben riformata, riorganizzata, non saprei con esattezza dire come, ma di certo diversamente da adesso. Una scuola liceale magari unificata ma con percorsi diversificati, nella quale lo studio della lingua greca e latina rimanga opzionale. Ma nella quale la grande eredità della civiltà classica (poesia, teatro, storiografia, archeologia) diventi comunque (un po’come è accaduto per la filosofia greca e la storia dell’arte antica) parte integrante dello studio di tutti quelli che la frequentano.

[PS: Diversi anni fa, nel post Perché salvare il liceo classico, mi esprimevo in modo più ottimista circa lo stato di salute di questo corso di studi. Adesso sono diventato parecchio più scettico. Ma, a guardar bene, le prospettive che, con dispiacere ma con molto realismo, indico ora per questo tipo di scuola (che ho molto a cuore perché ci ho insegnato per una vita) non sono nella sostanza diverse da quelle che indicavo allora: bisogna passare attraverso una sensata e complessiva riforma della scuola liceale]

[PS bis: non ho voluto affatto pronunciare in questo post un giudizio di valore sul liceo classico in sé, ma constatare un dato di fatto, una sorta di necessità storica: il classico così com’è (diventato) è ormai largamente superato dai tempi, purtroppo. Questo non significa ovviamente che non vi siano tuttora nel liceo classico studenti e insegnanti di valore. Tutt’altro: ce ne sono molti. Ma non è questo il punto. Il punto è che questo genere di scuola a mio avviso può sopravvivere solo trasformandosi (meglio forse: annullandosi) intelligentemente in qualcosa di diverso, non solo dal suo passato storico, ma anche e soprattutto dall’ibrido attuale.]

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Diverso tempo fa un genitore, mentre si parlava durante un colloquio non ricordo più di quale argomento pedagogico, se ne uscì con una affermazione tanto accorata quanto perentoria: Se si vogliono educare i giovani, l’ultima cosa che si deve fare è uccidere le loro speranze!

Una frase che lì per lì mi colpì e poi mi rimase inchiodata dentro, per un po’, dopo quel colloquio.

Come succede per le belle, apodittiche sentenze, quelle che paiono creare e significare per il solo motivo che suonano bene.

Come succede quando una di queste frasi – così categoricamente accusatorie – vanno involontariamente ad affondare il dito nella piaga di qualche nostro inconsapevole, oscuro senso di colpa.

Avevo forse commesso anch’io quell’ errore così imperdonabile?

Mi ero mai macchiato dell’orribile colpa di omicidio delle speranze giovanili?

No, non era possibile – mi risposi fra me e me, su due piedi. Altri forse l’avranno fatto. Non io che ho sempre insegnato l’agonismo degli eroi greci, il vitalismo dei poeti antichi, il culto della virtù e della saggezza che infiamma tanti autori classici…

Ma poi cominciai a riflettere che proprio lui, il padre Omero, al culmine della scena del duello fra Ettore e Achille (quella che leggo sempre a ragazzini sedicenni), ci presenta il troiano ormai di fronte a un destino segnato, pesato poc’anzi sulla bilancia della sorte da Zeus in persona – e il piatto è sprofondato giù, nell’Ade, senza rimedio. Atena fedifraga, che aveva illuso Ettore presentandoglisi sotto le mentite spoglie del fratello Deifobo, passa scorrettamente le lance ad Achille. Ettore di colpo capisce. Capisce tutto. Che non si tratta del fratello, ma della dèa che lo perseguita e che sta collaborando col suo avversario e col fato per farlo morire.

Ettore in quel momento non ha più speranze. Gli dèi stessi gliele hanno uccise prima che egli stesso sia ucciso dalla lancia di Achille:

M’è accanto ormai la mala morte, non è più lontana

né la si può evitare […] Ormai m’ha raggiunto la Moira

E allora che fa? Si rassegna alla sconfitta? Si lascia abbattere senza resistere? Rinuncia alla lotta?

Neanche per sogno:

Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morirò,

ma avendo compiuto qualcosa di grande, tale

che anche i posteri lo sapranno. 

[Iliade, XXII, 300ss.]

Ettore è uno che lotta di più proprio quando gli hanno già ammazzato la speranza. Un paradosso. Valli a capire questi Greci antichi che traevano il coraggio di agire dalla disperazione.

Vai a capire anche Esiodo, quello che raffigura la speranza come un male rimasto intrappolato nel vaso di Pandora; e tratta pure da sciocchi i contadini suoi colleghi che, anziché lavorare sodo, si affidano alla speranza vuota di una stagione favorevole e di un tempo atmosferico propizio.

Vai a capire anche Sofocle che santifica Edipo solo quando il dio lo ha indotto a strapparsi di dosso tutte le illusorie aspettative di essere un benefattore (potente, intelligente, innocente) dei suoi sudditi e lo ha fatto accecare davanti allo specchio rivelatore della sua orribile e colpevole e disperata nullità.

Prova a capire pure Tucidide che, per bocca degli Ateniesi, fa dare degli ingenui ai Meli perché si affidano alla speranza che gli dèi (oltre che gli Spartani) li aiuteranno contro nemici più potenti di loro…

Speranze, speranze, ameni inganni…. toh, il mio caro Leopardi! Per fortuna non lo insegno, ma ogni tanto in classe, per troppo amore, lo cito; e di lui mi viene in mente pure una delle ultime frasi dello Zibaldone, ripresa poi nel Dialogo di Tristano, dove si dice, più o meno, che la maturità vera e il più grande eroismo di un essere umano consistono nell’accettare l’idea di non avere nulla a sperare.

Accidenti: io tratto a scuola questi autori, propino queste lugubri elucubrazioni di cervelli malati di pessimismo, potenziali, esiziali corruttori della gioventù? Dunque, se non sono un killer delle speranze giovanili, sono quanto meno accusabile di apologia di reato o di favoreggiamento….

Aveva dunque ragione quel genitore.

Il suo anatema mi riguardava, in qualche modo.

Questi bandierai del pensiero negativo, questi antiquati autori dell’antiquata grecità – questi hope killers – andrebbero rimossi dalla scuola!

Insieme ai prof che ancora li insegnano.

Un motivo in più per abolire il liceo classico.

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