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L'Orologio dell'Apocalisse fermo nel 2019, ma l'umanità è ancora qui -  Positanonews

L’economia attuale muove dal desiderio più che dal bisogno. O forse dal desiderio trasformato ad arte in bisogno. Insomma: dal principio del piacere. Compito della scienza è richiamare, nel modo più rigoroso e consapevole, al principio di realtà. Compito della scienza, perché la politica a questo compito ha ormai completamente abdicato. Tristo e sgradevole compito, ma necessario per un progresso e un benessere adulti e sopportabili. La sfida oggi è questa, più che mai. Oggi, che gli uomini sono mentalmente sempre più succubi del desiderio infantile gonfiato e titillato a (illimitata) dismisura dalle irriducibili illusioni dello sviluppo, mentre la realtà del mondo in cui vivono si avvia a diventare una sua arcigna, sempre più spietata, fustigatrice. Noi tutti si vive in una grottesca sfasatura. In una drammatica convergenza di processi opposti. Arriverà, temo, il punto di deflagrazione. Il corto circuito che innesca l’ecpyrosis universale. Forse ci siamo già arrivati, ma non riusciamo ancora a realizzarlo. La scienza deve avere il coraggio di svegliarci dal sortilegio prima che la scintilla fatale scocchi. Di richiamarci, come l’antico oracolo di Delfi, al senso smarrito del limite. Prima che quel limite ci si pari davanti come una muraglia invalicabile.  La scienza, proprio lei, con tutta la sua piccolezza e la sua urtante e grigia e fredda imperfezione. La scienza, con il suo compunto linguaggio da confraternita dei flagellanti. Cos’altro? Tutto il resto (quel che sopravviverà) verrà poi per un di più, se mai riusciremo – per mezzo suo – a salvarci.

Avremmo dovuto capirlo prima. Eppure già il vecchio Epicuro l’aveva capito: il principio del piacere (alias il desiderio) è il nostro dio e la nostra nemesi. Lo si può assecondare (e goderne) impunemente (cioè legittimamente) soltanto imparando a rinunciare. Semplice a dirsi. Ma complicatissimo a farsi, oggi più che mai, quando non bastano più gli anticorpi della saggezza individuale per difendersi dentro un sistema economico totale. Una locomotiva che, per perpetuare la sua corsa, deve tenere il motore del desiderio perennemente accesso, a pieni giri.

La scienza è neutrale, gli scienziati un po’ meno. Perché sono anch’essi fatti come noi di desiderio. Sono uomini. E gli uomini preferiscono, per istinto, la tenebra del desiderio al lumicino della scienza.

Attorno al rigagnolo vivo, ma esile e sussurrante della scienza gracidano i rospi della politica, squittiscono i ratti dell’informazione. Attingono a quell’acqua per farne, mescolandola alla loro liscivia spumeggiante, bolle di sapone. Bolle enormi, luminescenti, che deflagrano immantinente, aria nell’aria.

Solo l’arte e la poesia ci possono consolare delle verità della scienza. Solo la scienza ci può salvare dalle fate morgane del desiderio, e dagli incantatori che le eccitano dalle sabbie del deserto. Solo l’arte e la poesia possono fare di quelle fate morgane la materia di rivelazioni ingrate e, insieme, gratificanti ed utili. E perciò magicamente esorcizzarle. Smascherarle e riconoscerle rappresentandole. Trasformare le Erinni cieche del desiderio in docili, ragionevoli Eumenidi. E così agevolare il compito della scienza.

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D. Qual è secondo lei il male peggiore che affligge la scuola italiana di oggi, in particolare quella liceale dove lei ha insegnato?

R. L’abdicazione al suo compito naturale e costitutivo, che è quello di insegnare, cioè di formare ed educare i giovani.

D. Perché la scuola trascurerebbe questo compito basilare?

R. Semplice, in apparenza: la scuola trascura il compito suo proprio per fare soprattutto altro: per dedicarsi cioè anima e corpo al compito (del tutto estraneo alla sua natura e addirittura incompatibile con essa) di attirare/conservare iscritti per sopravvivere.

D. E quali conseguenze concrete comporterebbe questa scelta?

R. Molto gravi. Se l’iscritto da conquistare/preservare e non il ragazzo da formare/educare è diventato il fine principale della scuola è ovvio e conseguente che essa oggi si occupi sempre meno della qualità didattica (cioè, detto banalmente, di far lezione nella maniera più seria ed efficace) e sempre di più della propria immagine presso il pubblico dei potenziali utenti.

D. E in quali modi curerebbe soprattutto la propria immagine?

R. In due modi soprattutto: difendendosi e promuovendosi. Ci si difende moltiplicando la burocrazia con cui ci si tutela da obiezioni, contestazioni e ricorsi degli utenti. Ci si promuove mostrando il volto più accattivante di se stessi e moltiplicando le occasioni e gli eventi nelle quali l’istituto interagisce – per poter ‘apparire’ – con persone, enti, aziende, amministrazioni, realtà esterne alla scuola stessa.

D. E perché questa cura dell’immagine comporterebbe l’abdicazione al compito educativo della scuola?

R. Per più motivi e davvero ovvi, a guardar bene. Primo: se ci si promuove si devono giocoforza nascondere o addirittura rimuovere i lati più impegnativi, spiacevoli e faticosi della propria attività. Autopromozione significa automaticamente corteggiare e blandire gli studenti in tutti i modi (voti gonfiati, verifiche programmate e addomesticate, pochi compiti a casa ecc.) e con tutte le iniziative possibili (gite, uscite, settimane bianche e ‘culturali’, feste, gare, progetti, attività extra- e parascolastiche ecc.): l’esatto contrario che formare e educare. Secondo: se ci si difende, si rinuncia al rigore professionale, al coraggio e alla franchezza che ogni rapporto autenticamente educativo (non solo scolastico) richiede. Autodifesa significa automaticamente rinunciare alla responsabilità di un serio patto educativo fiduciario con le famiglie (essenziale alla formazione e all’educazione di un ragazzo) per garantirsi una inattaccabilità tutta formale, giuridica, come se davanti non si avessero naturali collaboratori e alleati del proprio compito pedagogico, ma avversari da neutralizzare a colpi di statuti, griglie valutative, carte, deliberazioni formalmente impeccabili… Autopromozione e autodifesa sono due facce della stessa medaglia.

D. Chi sono le vittime di questo meccanismo autoconservativo?

R. Alunni e insegnanti. I primi non imparano più nulla di sistematico perché in gran parte chiedono (e in gran parte ottengono) di essere soprattutto blanditi e intrattenuti nel Kindergarten di una scuola-spettacolo, avviati senza traumi (come il Pinocchio di Collodi) ad una asinificazione indolore. I secondi fanno sempre più fatica ad insegnare: sia perché chiamati ad affaccendarsi, schiacciati come sono tra burocrazia autodifensiva e logi(sti)ca autopromozionale, in tutt’altre faccende rispetto all’autentico insegnamento; sia perché, se anche volessero continuare ad insegnare davvero (come alcuni tentano ancora, eroicamente, di fare) sarebbero bersagliati – senza difesa alcuna – dal fuoco incrociato della dirigenza da un lato e dei genitori più irresponsabili dall’altro. E se non è facile quantificare la percentuale dei genitori irresponsabili, è comunque certo che l’alleanza populistica che da decenni ormai si è stretta tra questi genitori e la dirigenza (e i suoi collaboratori) contro i docenti è solidissima e decisiva nel determinare le scelte e le sorti della scuola attuale.

D. Dunque nella scuola di adesso nessuno impara e nessuno insegna più?

R. No, nonostante tutto ci sono ancora studenti che studiano e insegnanti che insegnano. Questo è il consolante paradosso. Ma riescono a farlo nelle condizioni ambientali più avverse che si possano immaginare, ricavandosi in un contesto ostile una zona franca sempre più esigua, arroccandosi in una cittadella sempre più assediata. Mentre si affaticano per fare ancora autenticamente scuola devono combattere ogni giorno contro quella che io chiamo l’antiscuola.

D.Quale sarebbero secondo lei le cause più profonde di questa situazione?

R. Le scelte di politica scolastica degli ultimi 25 anni (riforme e riformine demenziali, spesso sparagnine e sempre demagogiche e/o iper-burocratiche, a partire dalla cosiddetta ‘autonomia’ per finire con la famigerata Alternanza Scuola-Lavoro) costituiscono indubbiamente la causa più diretta e concreta della deriva del sistema. Ma forse non sono la causa prima né la più profonda. Che è da rintracciarsi soprattutto, a mio avviso, nella radicale e accelerata omologazione in senso edonistico, mercantile e consumistico della società occidentale dell’ultimo quarantennio. Una vera rivoluzione antropologica che ha prodotto, nei giovani e nella famiglia prima e nella scuola di rimbalzo, l’evaporazione di quel confronto/conflitto generazionale che, piaccia o no, è presupposto di qualsiasi fecondo processo educativo. Il venir meno di questa opposizione dialettica e di questa alterità tra vecchi e giovani, genitori e figli, educatori ed educandi mi pare la radice più autentica e ineliminabile della crisi pedagogica attuale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Più idioti dei commenti idioti sul web sono coloro che sprecano il tempo prezioso della loro vita a commentarli.

Si è diventati adulti quando si è imparato a distinguere bene i sogni dalle illusioni.

Non bisogna più sorprendersi, tanto meno indignarsi, che l’ignoranza (la più crassa) trovi tanta ospitalità e apprezzamento nei media. Bisogna invece capacitarsi del fatto che oggi essa vi trova ospitalità e apprezzamento proprio in quanto tale.

Peggio che mancare il bersaglio è oltrepassarlo dopo averlo centrato.

Quando tutti vogliono scioccamente apparire, è condannato ad apparire e a confondersi con gli sciocchi anche chi vorrebbe saggiamente restare dietro le quinte. Altrimenti quella saggezza resterebbe sconosciuta.

Oggigiorno l’edonista Epicuro, se intervenisse nei talk show, farebbe la figura del più greve dei moralisti.

Qualche volta penso (sbagliando) che approcciarsi alla vita soprattutto attraverso la letteratura sia come entrare in una ottima rosticceria all’ora di pranzo ed accontentarsi di annusarne  gli odori.

Campa cavallo, che l’erba – sintetica – cresce.

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In questi giorni è di moda rievocare il Sessantotto. Non ho né la competenza storica per trattarne da specialista, né un’età così veneranda per parlarne da testimone diretto. Ma ho vissuto la mia adolescenza e la mia prima giovinezza negli anni settanta: non posso perciò non ricordare gli effetti che quel rivolgimento produsse da noi, specie nel mondo giovanile, negli anni immediatamente successivi. Sul piano dei rapporti sociali – un po’ in tutti i campi, ma nella scuola in primis – si trattò di una rivoluzione culturale, con tutti i suoi pro e i suoi contro. Un’eruzione vulcanica, o uno tsunami. Un intero sistema autoritario – impositivo, coercitivo, gerarchico, dogmatico – venne spazzato via in poco tempo per lasciare spazio (per parlare del meglio) a relazioni fondate sul confronto paritario, la critica, la contestazione, la rivendicazione etc.; oppure (per parlare del peggio) al lassismo anarcoide, all’intimidazione, al fanatismo ideologico, al vilipendio delle istituzioni. Fino a forme di violenza politica che sfociarono negli anni bui del terrorismo e delle stragi. Cose da tutti risapute.

Non si riflette abbastanza invece, alla distanza – storicamente istruttiva – di mezzo secolo, sull’onda lunga prodotta da quel maremoto. Perché è dagli effetti tardivi di un evento che spesso si comprendono meglio la sua natura profonda e le cause che l’hanno prodotto. Ubriacatura ideologica, estremismo politico, terrorismo – infatti – mi sembrano oggi solo gli effetti immediati, più superficiali, meno significativi (per quanto deleteri e addirittura drammatici) di quel sommovimento tettonico. Solo i lapilli e la cenere e la nube piroclastica del vulcano esploso. Ma il fronte poderoso della lava doveva ancora scendere e produrre a maggiore distanza la sua azione più vera, ampia e duratura.

Sì, perché il Sessantotto di piazza con i suoi dintorni “rivoluzionari” sono stati, secondo me, soltanto un epifenomeno. In greco questa parola significa una manifestazione di superficie, che non rivela la profondità delle cause – ripeto – ma può addirittura dissimularla.

L’onda del sessantotto si è gonfiata ed è tracimata per l’unico ed essenziale motivo che la nascente società della produzione e del consumo di massa non poteva più essere contenuta negli argini del vecchio ordine ‘borghese’: Dio, patria, famiglia, scuola, partito…

Tutto questo è stato bene e tempestivamente intuito in diverse, lucidissime e formidabili pagine giornalistiche di Pierpaolo Pasolini (poi raccolte negli Scritti corsari). Non per caso Pasolini fu uno degli intellettuali più discussi e contestati dai sessantottini e dai loro fiancheggiatori e simpatizzanti: perché aveva capito prima (molto prima) degli altri che cosa veramente bollisse in pentola. Aveva focalizzato la vera natura e la vera direzione dell’onda anomala prodotta dallo tsunami.

E aveva compreso che tutti i vari movimenti(ni) e le ideologie e gli intellettuali e i partiti che la cavalcavano ne sarebbero stati alla lunga disarcionati e travolti dopo essersi scioccamente illusi di indirizzarne e sfruttarne la direzione da provetti surfisti…

Che cosa è rimasto in effetti della miriade di discussioni intellettuali sui massimi sistemi; dell’operaismo; del comunismo gruppettaro e barricadero; degli slogan e dei fogli iperideologici e pseudorivoluzionari; degli scontri di piazza? Nulla, direi. Per fortuna. Soprattutto se si pensa alla deriva terroristica che ne è immediatamente seguita.

Che cosa, invece, dei diritti civili e femminili, della rivoluzione generalizzata del costume nei rapporti privati, familiari e sociali; dell’individualismo edonistico e libertario? Molto. Direi quasi tutto.

Dicotomia di effetti e di filiazione. I primi erano figli bastardi o putativi, prematuramente invecchiati per intossicazione vetero- ideologica, scaricati e calpestati dal carro della storia e abbandonati per strada. I secondi, invece, erano i figli autentici, cresciuti all’ombra dei fratellastri e maturati poi negli anni ottanta e novanta. Gli anni del consumismo sfrenato e del liberismo economico. Gli anni dei mercati e dei supermercati. Delle discoteche. Delle tv private e commerciali. Delle vacanze programmate. L’era della metastasi pubblicitaria onnipervasiva.

Ricordo un articolo di Giorgio Bocca in un numero de L’Espresso di circa 40 anni fa. Era il 1979. Da noi si era ancora in pieno clima di guerra civile con gli scontri di piazza e il terrorismo in piena attività. Ebbene Bocca, in quell’articolo, rivolgeva l’attenzione ad un fenomeno di fresca importazione americana: la famosa febbre del sabato sera diffusa negli USA dai fortunati musical di John Travolta.  Bocca diceva che quella moda era la prima avvisaglia della nuova era che si annunciava all’orizzonte. Che la saturday night fever avrebbe sconfitto il terrorismo nostrano e seppellito gli anni di piombo prima e più facilmente di mille battaglioni di polizia. Così fu. Perché Travolta era l’icona vivente del sessantotto ormai giunto alla sua maturità storica e pronto a reclamare la propria eredità borghese, a riaffermare la propria autentica identità (edonistica, consumistica, individualistica, anti-ideologica) dopo un equivoco sesquipedale durato più di un decennio.

D’altro canto, che le mode ideologiche massimaliste di quel decennio fossero solo le mosche cocchiere, ovvero una fragile (e anacronistica) maschera, di un sommovimento epocale di tutt’altra natura lo dimostra l’assurdità delle utopie che i ‘rivoluzionari’ nostrani dell’epoca inseguivano: sognavano in fin dei conti una società simile a quella realizzata nei paesi comunisti dell’Europa orientale, proprio mentre quei regimi erano già di fatto in avanzata decomposizione; nel frattempo i giovani d’oltrecortina, molto più realisticamente, sognavano l’esatto contrario: la libertà borghese e il benessere dell’occidente. Doppio e simmetrico e opposto sogno. Il primo purtroppo tragicamente fasullo, completamente fuori dalla storia. Sorretto da un furore solipsistico e delirante che succhiava linfe residuali da ideologie oramai mummificate (vedi – o rivedi – in proposito il bellissimo film di Bellocchio Buongiorno notte, del 2002, ma di recente riproposto in televisione).

 

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