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Posts Tagged ‘guerra’

“ La massa combatte contro la ragione a difesa del proprio male […] La prova inconfutabile che una cosa è sbagliata sta nel fatto che essa è sostenuta dalla massa […] Nella massa il numero di quanti ti ammirano è sempre pari a quello di quanti ti detestano.” (sulla irrazionalità della massa; sulla sua rovinosa subcultura e la sua soggezione a vecchi e nuovi idoli e pregiudizi)

“Il piacere stia al seguito e non al comando di un retto e onesto intendimento […] La retta intelligenza stia davanti e il piacere l’accompagni come un’ombra accompagna il corpo: mettere la retta intelligenza al servizio del piacere è tipico di quelli che non arrivano a concepire nulla di grande e di buono. […]  Io sono padrone delle mie ricchezze, le tue invece lo sono di te…” (sul volgare edonismo della società dei consumi)

“Voi che disprezzate la retta intelligenza e odiate quanti la coltivano, non fate proprio niente di nuovo: sono gli occhi malati a temere il sole e sono gli animali notturni a fuggire la luce del giorno: appena spunta, quelli rimangono abbagliati e si precipitano verso i loro nascondigli e si nascondono spaventati nelle fessure del terreno. Voi ringhiate e muovete la vostra lingua solo per insultare le persone per bene, le azzannate a bocca aperta. Ma vi spezzerete i denti prima di scalfirle.” (sull’odio e il disprezzo populistico verso la razionalità e la cultura di presunte élites. Con particolare riferimento a certo becero e reazionario ‘giornalismo’ nostrano che alimenta e usa spudoratamente quel disprezzo, anziché contrastarlo)

“A qualcuno non darò aiuti in danaro, perché appena glieli avrò dati sarà subito e ancora bisognoso di averne…” (sull’uso e sulla elargizione corretti del danaro, privato e pubblico)

“Una bella casa vi rende orgogliosi, come se non potesse mai incendiarsi né crollare, e le ricchezze vi mandano in estasi, come se avessero lasciato dietro di sé ogni pericolo e fossero troppo potenti perché la sorte possa avere forza sufficiente per distruggerle. Spensierati ve la spassate tra i vostri beni e non scorgete il pericolo che li minaccia. Così fanno in genere certi barbari: assediati e ignari di che cosa siano le macchine da guerra, essi osservano inerti la fatica degli assedianti e non intuiscono minimamente quale scopo abbiano quelle strane costruzioni che essi osservano da lontano. Voi fate lo stesso: sguazzate tra i vostri beni e non immaginate quante sventure incombano e si apprestino a farne un ricco bottino.” (sul nostro continuare a danzare allegramente sul Titanic, chiusi dentro un presente che sta per passare, avvolti ed accecati dalla bolla illusoria di un benessere infinito. Fuori della similitudine senechiana, la ‘barbarie’, in senso culturale, è anche questo: rinunciare a guardare lontano, ignorare il senso della storia e rimanerne perciò travolti. Oggi più che mai l’avviso di Seneca ci riguarda, credo, mentre macchine da guerra si apparecchiano, spaventose, sul nostro vicino orizzonte)

[Seneca, De vita beata, passim – anni cinquanta del primo secolo dopo Cristo; traduzione mia]

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Ricevo e volentieri segnalo a mia volta una lettera aperta (diffusa attraverso vari canali di informazione) di miei colleghi lombardi sulla guerra in Ucraina:

https://ilmanifesto.it/lettere/lettera-aperta-degli-insegnanti-sulla-guerra-e-sulla-pace

Condivido pienamente, almeno in linea teorica.

Aggiungo solo, per non restare attaccato alla atroce contingenza di questo e di altri drammatici eventi di attualità, che mi è personalmente difficile pensarli senza il filtro di certi paradigmi culturali (tragici ma illuminanti) della cultura antica. Paradigmi, ahimè, che la cultura contemporanea sembra aver completamente dimenticato.

Personalmente guardo con sgomento e orrore istintivo alla prospettiva apocalittica della fine violenta della storia umana che questa lettera realisticamente paventa. All’inconcepibile che rischia di diventare possibile.

Ma al tempo stesso non posso non essere razionalmente pessimista circa la nostra capacità di scongiurare la catastrofe. Anzitutto perché essa, purtroppo, presenta tutti i caratteri di una Nemesi storica.

Una Nemesi è la conseguenza necessaria, la pena inevitabile, di una Hybris. E la Hybris è la cecità e la tracotanza che travolgono la persona vincente e fortunata quando si lascia inebriare dalla propria vittoria e dalla propria fortuna.

Alcuni decenni fa l’Occidente, il nostro Occidente, si è ubriacato di questa Hybris. Ha creduto di poter impunemente trionfare da vincitore (come i guerrieri dell’Iliade) sul cadavere del proprio nemico morto di morte naturale, di danzare allegramente sulle macerie del suo impero spontaneamente crollato, imploso su se stesso. Ma nell’Iliade questa esultanza smodata avveniva sul cadavere di un nemico sconfitto con valore e lealtà in duello. Ed era comunque, nonostante questo, foriera di sventura. Preludeva alla morte dello stesso vincitore, per la legge alterna ed implacabile della guerra. Così succede regolarmente a Ettore prima (quando esulta sul corpo di Patroclo) e ad Achille poi (quando infierisce sul cadavere di Ettore).

La cronaca di questi giorni, se la si guarda dall’osservatorio sopraelevato della storia, ha tutte le sembianze di una Nemesi che si abbatte sulla cecità dell’Occidente. Di una resa dei conti, insomma.

Non sono affatto, sia ben chiaro, un fustigatore dell’Occidente. Sono anzi convinto che il nostro sia, tra i mondi possibili finora realizzatisi sulla terra, il meno peggiore. Credo altresì che la nostra civiltà abbia maturato ed espresso valori che sono attualmente patrimonio (come si dice adesso) dell’intera umanità. Certo: le bandiere di questi valori sventolano issate sopra enormi montagne di crimini e di sopraffazioni perpetrate nei secoli. Nonostante tutto ciò credo che l’Occidente, il nostro Occidente, soprattutto quello europeo, abbia alla fin fine generosamente dato al genere umano qualcosa di più del moltissimo che pure, con avidità, gli ha sottratto. Non sono molte le civiltà umane che possono vantare questo merito.

E tuttavia una trentina di anni fa l’Occidente si è macchiato, ripeto, di una fatale Hybris. Ha creduto di poter stravincere senza nemmeno aver combattuto. Ha umiliato e strapazzato il cadavere, da tempo mummificato e poi spontaneamente stramazzato al suolo, dell’Oriente europeo.

Ma non si è reso conto di umiliare e di strapazzare così anche i suoi superstiti eredi, confusi e smarriti in quei momenti, quindi apparentemente succubi e remissivi di fronte al vincitore. Ma quegli eredi erano tutt’altro che inermi. Anzi erano ancora armati fino ai denti di armi potentissime, catastrofiche, pari alle nostre. Strana vittoria questa su un nemico cui non si è chiesta (né si poteva farlo) la resa delle armi. Strana pretesa del presunto vincitore di togliere all’avversario potere, influenza e centralità solo perché quello era morto di morte naturale e i suoi eredi non sapevano al momento come gestirne l’eredità. Strana cecità e pericolosissima illusione nutrite, entrambe, dalla vittoria. Pura Hybris, appunto.

Nella tragedia greca sono frequenti le vicende di personaggi che, come il nostro Occidente, si ubriacano del successo presente e non sanno leggerne le disastrose conseguenze future. Poi quando la catastrofe sopraggiunge, improvvisa, inattesa – aprono gli occhi, finalmente: ma con grande fatica e a proprio danno. E, soprattutto, quando è troppo tardi. Perché la saggezza tragica, si sa, è sempre tardiva. Perciò inutile a chi finalmente la consegue. Utile solo, forse, ad ammonire gli spettatori, finché si tratta di uno spettacolo teatrale.

Ma qui, di fronte alla catastrofe che si annuncia all’orizzonte, noi non siamo semplici, ammaestrabili spettatori di una tragedia. Ne siamo corresponsabili, partecipi e potenziali vittime. Come Edipo, come Serse, come Eteocle. Eteocle più di tutti è quello che ci assomiglia di più. Ma non completamente.

L’Occidente, negli ultimi decenni avrebbe dovuto (più che potuto) fare molte cose: una politica estera di equilibrata collaborazione economica e di integrazione politica nei confronti del vecchio nemico; una seria e profonda strategia di disarmo atomico bilaterale; una Östpolitik illuminata, inclusiva, lungimirante, di ampio respiro. Ubriaco della caduta del muro, l’Occidente non fatto nulla di tutto questo. Ha lasciato che i semi dormienti della rivalsa e della frustrazione covassero sotto le macerie dell’Oriente sconfitto e impoverito, convinto che non avrebbero mai più fruttificato. L’occidente non ha capito che il terreno desolato che abbandonava ad est dei suoi dilatati confini poteva essere il più adatto a nutrire, alla lunga, un dispotismo barbarico e revanscista.

L’Europa ha mancato un’occasione storica per dare fondamenta stabili a una pace vera e duratura. Adesso temo che sia troppo tardi. Il nuovo duello che si profila potrebbe essere l’ultimo e fatale, vale a dire – nella logica vecchia ed assurda ma ineluttabile della guerra – inevitabile. Quello dell’apocalisse. Quello tra Eteocle e Polinice. Quello attraverso cui Nemesi trionfa sopra i cadaveri dei due fratelli-nemici che si sono uccisi l’uno per mano dell’altro. E il prezzo della vittoria di Nemesi potrebbe essere l’annientamento stesso della nostra stirpe, o di una buona parte di essa.

Non esiste un al di là di una terza guerra mondiale, di una guerra nucleare generalizzata”: hanno ragione da vendere i miei colleghi firmatari della lettera che ho linkato sopra. Ascoltare giornalisti che in un salotto televisivo discettano su di una imminente guerra nucleare come se si trattasse di una opzione militare tra le altre fa rabbrividire. È il segno che quella Hybris continua a chiuderci gli occhi (e ad aizzare la Nemesi) persino in faccia alla rovina.

E allora, che fare? Ecco la domanda tragica per eccellenza. Quella che tormenta Eteocle quando sta per scendere alla settima porta di Tebe, la città di cui ha usurpato il potere esclusivo a spese del fratello, ma che adesso egli deve e vuole difendere eroicamente dall’aggressione di quello, che lo attende fuori da quella porta per ucciderlo ed esserne ucciso. Ma Eteocle non rinuncia a scendere, nonostante le donne di Tebe – consapevoli come lui di quello che sta per accadere – lo implorino di non farlo. Eteocle è prigioniero della logica distruttiva della Nemesi tragica. Che è la stessa medesima logica della guerra. Ma il suo gesto fratricida, insieme al suo onore militare, salva la sua città. Giova almeno alla sua comunità.

La guerra totale che ci minaccia adesso, dopo l’avvento delle armi atomiche, non rispecchia se non in parte quella del mito. Assomiglia e non assomiglia alle nostre guerre precedenti. La Nemesi che incombe su di noi rischia infatti – pur rimanendo incatenata alla legge del taglione e dell’onore militare – di distruggere la nostra specie e la nostra civiltà, non certo di salvarle, né di ristabilire un qualsiasi, fruibile ordine materiale e morale. Una Nemesi atomica sarebbe enormemente sproporzionata alla Hybris commessa. Sarebbe un’ecatombe definitiva, mostruosa – e inconcepibile nella sua mostruosità. La fine della nostra storia. Nient’altro.

Con la minaccia atomica l’inconcepibile rischia di diventare possibile.

Perciò anche l’impossibile (spezzare per tempo la logica arcaica, perversa e incatenante della guerra) diventa obbligatorio.

Hanno ragione quindi – una ragione pratica, solidamente realistica – i firmatari della lettera. Diventa moralmente obbligatorio arrestare al più presto e in ogni modo questa guerra, prima che diventi impossibile fermare il passo che ci trascinerà nel baratro.

Bisogna avere il coraggio rivoluzionario di rinunciare a scendere (come mai Eteocle avrebbe rinunciato a fare) alla settima porta. Già: ma come affrontare Polinice che ha aggredito Tebe con un imponente esercito? Come inchiodare anche lui, che non ha esitato a scatenare un conflitto fratricida contro la sua città, a questo obbligo morale? Mi auguro – voglio credere – che si trovi presto una risposta concreta a queste angosciose domande.

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Risultato immagini per vittorini

«Non l’hai fatto fuori?» «Era troppo triste». Finisce così Uomini e no di Elio Vittorini, con uno scambio di battute tra due gappisti reduci da una azione armata contro una pattuglia tedesca. Finisce, per me, con una sorta di dejà lu letterario. Con tutta probabilità Vittorini aveva letto Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, e conosceva la scena in cui due soldati italiani, arrivati senza farsi accorgere a tu per tu con un nemico ignaro e isolato, rinunciano a sparare a colpo sicuro:

«Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s’erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all’altra. Dicevo a me stesso: «Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così!»   Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esame di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: – Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: – Neppure io.».

L’episodio narrato da Lussu mi sembra in effetti il sottotesto ideale della laconica risposta del gappista di Vittorini: illumina cioè il tormentato sommovimento psicologico che vieta – eccezionalmente – a un soldato di uccidere, rivela la parte nascosta dell’iceberg di cui lo scambio secco di battute dei personaggi di Vittorini è la punta emersa. Homo sum, nihil humani a me alienum puto: per Vittorini sarebbe dunque la persistenza di questa fiammella di humanitas, non spenta dalla macchinale crudeltà della guerra, a tracciare la linea di demarcazione tra uomini e no. Come a dire: in guerra rimane uomo soltanto chi non dimentica di esserlo e sa ancora riconoscere nel nemico un proprio simile. Sarebbe: ho usato il condizionale, perché poi in realtà, in altri passaggi di Uomini e no, questo umanesimo di marca antica applicato alla nostra resistenza – questo modello antropologico per certi versi rassicurante perché facilmente condivisibile come oppositum della bestialità – è messo in discussione da Vittorini, o meglio superato da una riflessione più complessa e tragica. Dopo aver descritto la ferocia di Clemm, il capo delle SS che lascia sbranare dai suoi cani un partigiano prigioniero che ha obbligato a denudarsi, lo scrittore infatti commenta:

Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo. Lagrime? Ecco l’uomo. E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo. Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo? Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti, fate. Che cosa farebbero? Un corno, dice mia nonna. Può darsi che Hitler scriverebbe lo stesso quello che ha scritto, e Rosenberg lui pure: o che scriverebbero cretinerie dieci volte peggio. Ma io vorrei vedere, se gli uomini non avessero la possibilità di fare quello che fa Clemm, prendere e spogliare un uomo, darlo in pasto ai cani, io vorrei vedere che cosa accadrebbe nel mondo con le cretinerie di loro.»

No, purtroppo uomo non è soltanto quello che sempre, prima o poi, si ricorda di esserlo: l’Uomo di Menandro e di Terenzio, il gappista che rinuncia a sparare a un nemico che gli somiglia troppo. Quella è purtroppo una edificante eccezione. Una mèta, un imperativo morale, se non un miraggio. L’uomo nella realtà è soprattutto quello di Tucidide: l’ateniese che allo stesso tempo costruisce la più ricca e tollerante e civile comunità del mondo antico e che – per preservarla e accrescerla – stermina con consapevolezza e con automatica ferocia tutti gli isolani della piccola Melos solo perché la sua neutralità ne potrebbe disturbare l’egemonia. L’uomo può essere tutto e il suo contrario, ‘volgersi al bene come al male’, come già un grande contemporaneo di Tucidide, un poeta (non per caso) tragico come Sofocle, aveva proclamato nel primo coro dell’Antigone.

Uomini e no, riletto alla luce della complessità dell’opera, mi pare insomma un titolo fintamente assertivo e potenzialmente equivoco. Parrebbe dividere con nettezza tra ‘uomini/buoni’ e ‘belve/cattivi’, tra partigiani e nazifascisti. In realtà le pagine del romanzo confondono non poco l’apparente (e confortante) certezza di quel dualismo: approfondiscono cioè via via un lacerante dubbio di fondo, scoprono che quel titolo dissimulava piuttosto un interrogativo basilare circa la bontà della natura umana. E che a quella domanda l’autore ha dato alla fine, con una onestà etica e intellettuale che gli fa onore, una sofferta risposta negativa.

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DRAMMA, FARSA O TRAGEDIA? | Blog di giuli44
15 novembre 1960 : la prima storica trasmissione del maestro Alberto Manzi  “Non è mai troppo tardi” – San Paolino's Voice

Parlando in tv della situazione attuale Corrado Augias l’ha definita più di una volta una tragedia. E ha spiegato in perfetta sintesi, da intellettuale saggio, cólto e navigato quale è, anche il perché: è una tragedia perché continuamente si deve operare una scelta: tra la salute e l’economia, tra esigenze sanitarie ed esigenze sociali ecc. E questa scelta obbligata comporta comunque – qualunque strada si scelga -, insieme ad un possibile giovamento, anche una sicura perdita, un drammatico prezzo da pagare. Bravo il vecchio (e non per caso) Augias. Sì, perché modernamente la parola tragedia si è tanto inflazionata da smarrire il proprio significato autentico e più antico che invece Augias ben conosce. Tragedia non è infatti, genericamente, un qualsiasi evento luttuoso. Il cuore di una vicenda tragica è la fatale drammaticità della scelta. «Che fare?» si domandano spesso, di fronte a un bivio ineludibile, i personaggi del dramma greco antico: decidere, in una tragedia, è un obbligo e una condanna. Una sanguinosa necessità. Perché non si deve decidere tra il bene e il male, ma tra due alternative ugualmente/diversamente ‘buone’ e ‘cattive’, utili e nocive insieme. Se siamo invece ubriacati e rimbambiniti dall’ottimismo retorico pervasivo della pubblicità, dei media e delle fiction cine-televisive pop (dove contano solo il lieto fine e la distinzione netta e fittizia tra bene e male, o tra buoni e cattivi) allora non siamo più in grado di avvertire l’incombenza della tragedia, né di affrontarla fattivamente da adulti. Perché il ‘racconto pop’ di noi stessi che ci somministra ogni giorno il sistema edo-consumistico di massa è una droga che ottunde il senso del tragico e ci immerge in una sognante melassa moralistico-sentimentale: il brodo di cultura più adatto per l’individuo eterno adolescente di oggi. Anziché aiutarci ad affrontare con coraggio e responsabilità la scelta, questa ‘racconto’ ne rimuove la necessità: ci consola illudendoci che ne usciremo semplicemente ‘resistendo’. Continuando cioè, a nostro e altrui danno, a non scegliere.

Proteste, sit-in, accorati appelli per la scuola in presenza, invettive contro la Dad, requisitorie contro l’effetto spersonalizzante del computer, lo smarrimento dei contatti umani nella solitudine vissuta davanti a uno schermo… Protestano intellettuali, insegnanti, studenti. Penso lì per lì: critiche giuste, sacrosante. Non si possono tenere un anno i ragazzi tutti a casa solo perché nel frattempo non si sa o non si vuole migliorare il trasporto scolastico, organizzare una scuola più sicura con una frequenza parziale, che sia al 50 o 70%… Poi però leggo sui giornali che l’80% dei ragazzi delle superiori non vorrebbe tornare fisicamente a scuola perché lo ritiene ancora pericoloso. E poi apprendo da un serissimo programma di inchiesta televisiva che molti nostri adolescenti passano qualche ora del giorno davanti a uno schermo per seguire indiavolati influencer o streamer, loro coetanei o poco più grandi, che li rimbambiniscono con intrattenimenti futili, demenziali e/o compulsivo-ossessivi. E poi, ancora, penso a mio padre e ai suoi coetanei, giovanissimi durante l’ultima guerra, che hanno perso anni di scuola sotto i bombardamenti o al fronte o nei campi di prigionia, e si sono diplomati solo nel dopoguerra. E poi penso al maestro Manzi che nei primi anni sessanta ha istruito dal piccolo schermo migliaia di analfabeti ed appassionato anche me, bambino, che lo seguivo tutti i giorni in tv. E mi faccio delle domande: quanto sono giustificati (e non ideologici) gli appelli degli intellettuali contro la telescuola? Quanto sono sincere ( e rappresentative) le proteste degli studenti se poi in realtà a scuola non vogliono tornarci? O se soffrono tanto davanti a un computer quando si collegano col loro prof, ma non altrettanto quando si collegano con uno youtuber di successo? Mio padre (che era un operaio specializzato con licenza elementare) e quelli della sua generazione (che ha annoverato fior di intellettuali) hanno imparato dai tragici orrori della guerra di più o di meno di quanto avrebbero imparato frequentando regolarmente la scuola e l’università? Insomma mi viene qualche dubbio, non certo sulla indiscutibile limitatezza e imperfezione della Dad, ma sulla giustezza, la credibilità e la proporzione (dato il momento) delle recriminazioni e delle lamentazioni che si levano contro di essa.

A proposito di lamentazioni. Le più alte e sicuramente le più giustificate provengono, oltre che dal mondo della scuola, da quello delle arti, del teatro, del cinema. Sacrosante anche queste, se fossimo in una situazione normale. Comprensibilissime, visto che si tratta di professionisti che vivono di questo loro nobile mestiere. Non ho personalmente dubbi (e questo blog credo lo testimoni abbastanza) che la produzione e la fruizione della cultura umanisticamente intesa sia (o debba essere) lo scopo principale per cui stiamo al mondo. Che possiamo dirci esseri umani soprattutto per questo. Sono convinto insomma che la cultura sia la cosa più importante, del mondo e nel mondo degli uomini. Ma, ahinoi, non viene per prima. È l’ultimo gradino, il perfezionamento ultimo della nostra humanitas. Quando per necessità contingenti l’umanità regredisce a bisogni primari la cultura, purtroppo, non può che farsi (o essere messa) da parte. E deve attrezzarsi, come può, a sopravvivere, per continuare a far sentire la sua flebile ma importantissima voce. Not least but last.

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Poveri e impoveriti. Uguali economicamente. Simili etimologicamente. Antropologicamente opposti. Nemici.

I poveri (nati poveri, figli e nipoti di poveri) hanno lo sguardo rivolto al futuro prossimo nel quale sognano la fine della loro povertà. Amano la giustizia e l’eguaglianza perché possono aiutarli a vincerla. Progettano una società migliore dove viga una più equa redistribuzione della ricchezza. Identificano i loro avversari in quei ricchi e potenti che ostacolano questa redistribuzione. I poveri sono dunque tendenzialmente inclini a soluzioni politiche inclusive, solidali e, in senso più o meno lato e più o meno pacifico, socialiste del problema della propria e altrui povertà.

Gli impoveriti (nati benestanti o figli e nipoti di benestanti) hanno lo sguardo rivolto al passato recente nel quale non esisteva ancora la loro povertà. Detestano la giustizia e l’eguaglianza, perché le intendono ormai come condanna alla condivisione con i poveri dei disagi di quella povertà da cui prima si sentivano immuni e alla spartizione con loro delle residue briciole del benessere. Rimpiangono la società passata nella quale godevano, anche al prezzo della immensa povertà altrui, i vantaggi e i privilegi del benessere. Identificano quindi i loro avversari non in coloro che sono ancora (o ancor più) ricchi, nei quali anzi si immedesimano, ma in tutti quei poveri che preesistevano al loro impoverimento. Perché essi ritengono (a ragione o a torto) che le velleità e i tentativi di quei poveri di emanciparsi dalla povertà siano la causa prima del loro impoverimento. Gli impoveriti sono dunque tendenzialmente inclini a soluzioni politiche esclusive, ‘egoistico- corporativistiche’ (di categoria, branco, etnia, nazionalità ecc.) e, in senso più e meno lato, nazional-socialiste del problema del loro proprio impoverimento.

Questa è la guerra che si sta combattendo oggi e su scala pressoché mondiale: non propriamente una guerra tra poveri, bensì la guerra dei nuovi impoveriti contro i vecchi poveri.

Il conflitto tra popolo ed élite, al confronto, mi pare al momento una fake, un depistaggio mediatico. Al massimo un corollario di quell’ altra guerra.

Tempi d’oro insomma – tra i due contendenti – per i super-ricchi…

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