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Posts Tagged ‘traduzione letteraria’

Orazio e Lydia (studio), 1886 di Albert Edelfelt (1854-1905, Finland) |  Riproduzioni D'arte Del Museo Albert Edelfelt | WahooArt.com

[Orazio, Odi I 25]

Sempre di meno ragazzi impertinenti

tempestano di sassi i tuoi battenti

chiusi. Non ti disturbano più il sonno

e la tua porta ormai non si separa

per un solo istante dalla soglia.

E dire che sui cardini una volta

era tutto un apri e chiudi senza sosta.

Sempre meno ti cantano da sotto:

“Muoio d’amore per te nelle lunghe

mie notti, e tu che fai, Lidia? Dormi!”

Tra poco sarai tu – vecchia oramai

e ignorata da tutti – ad implorare

spavaldi bellimbusti in un vicolo

deserto, in quelle notti senza luna

spazzate in lungo e in largo dalla bora.

La voglia senza freno che fa andare

via di testa le cavalle in calore

a morsi ti strazierà le viscere

e ti farà piangere, e urlare.

Sì, perché allegra la gioventù gode

dei colori dell’edera e del mirto

ma le fronde rinsecchite le regala

all’Ebro, compagno dell’inverno.

La legge del tempo che rovescia un destino. Crudele e beffarda. Una legge che Orazio avverte e soffre con una sensibilità speciale, quasi unica. Vale per tutto e per tutti, ma specialmente per la bellezza, e in amore. Lidia è stata un’etèra (una escort) affascinante, desiderata e inseguita da molti. Si è potuta permettere di tenere sulla corda i suoi spasimanti, di umiliarli, di prendersene gioco. Ma adesso lei invecchia. E allora il gioco presto muterà in un atroce contrappasso. Sarai lei tra non molto a soffrire e a spasimare, come una lupa insaziata o una cavalla in amore, per giovanotti che a loro volta la umilieranno con il loro disprezzo e con la loro irriverente allegria. Forse l’acrimonia di Orazio cela un risentimento: ha amato molto anche lui, come tanti altri, questa donna ed è stato probabilmente anche lui vittima dei suoi capricci e della sua superbia. Ma, come sempre in poesia, la vicenda personale e il senso di rivalsa individuale sono trascesi in una rappresentazione – cruda e tragica – di valore universale. Nella traduzione ho voluto/dovuto sciogliere e ‘modernizzare’ talune espressioni oraziane che non avrebbero conservato in italiano, se rese alla lettera, una efficacia pari a quella dell’originale: così, per esempio, amat ianua limen (‘la tua porta ama la soglia’) è diventato la tua porta ormai non si separa/ per un solo istante dalla soglia; e non sine questu (‘non senza lamenti’) è diventato (con una endiadi adatta – credo – alla temperie drammatica del contesto) ti farà piangere e urlare.

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[Orazio, Odi, 1,13]

Lidia se tu mi lodi

il collo di Telefo color

rosa, le braccia di Telefo color

cera, allora sì che il fegato

si gonfia e mi ribolle

in un travaso di bile.

Allora sì che mi sbanda

il cervello e la faccia impallidita

s’inumidisce di lacrime segrete

svelando quanto in fondo in fondo

un fuoco lentamente mi divori.

Mi brucia eccome se tra voi

il vino accende risse senza freno

che si accaniscono sopra le tue

tenere spalle, e lui, il ragazzo

sbavando di passione imprime

col dente sul tuo labbro un segno

che tu non scorderai. 

Credimi: non sperare che per sempre

ti amerà uno che barbaramente

ha offeso la dolcezza dei tuoi baci,

baci sui quali Venere ha cosparso

l’essenza del suo nettare divino.

Tre volte e mille beati tutti quelli

che un infrangibile nodo stringe e Amore

mai lacerato da recriminazioni amare

separerà solo nell’ora della morte.

Un’altra ode difficile da tradurre, se si vuole mantenere il giusto equilibrio tra la dignità stilistica della lirica oraziana e la necessità di renderla fruibile e godibile al lettore moderno. Questo non facile equilibrio ho cercato di mantenerlo iniziando con espressioni colloquiali, con versi brevi e con un piglio ritmico-sintattico più vivace che ho cercato mano a mano di smorzare, nella seconda parte, con versi più lunghi, in un linguaggio appena un po’ più sostenuto ed in una cadenza più composta e cantabile.

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Carpe diem - di Cristina Miedico [editoriale]

Odi I 11 [Carpe diem]

Non indagare – non ci è dato

saperlo -, bambina mia, la sorte

che gli dèi hanno già scritto

per me, per te. Lasciali stare

gli oroscopi venuti dall’oriente.

Mille volte meglio accettare

il destino, qualunque mai sarà:

che molti inverni o ultimo

questo che adesso non dà tregua al mare

Tirreno sulle opposte scogliere

Giove ci abbia assegnato, tu, da saggia,

filtra i vini e taglia via speranze

troppo lunghe cresciute sopra il tronco

breve della vita. Parliamo, parliamo

e intanto è già scappato invidioso

il tempo. Cogli il presente

e non fidarti – mai – del domani.

Il top e la quintessenza della lirica oraziana: il carpe diem. Qui più che altrove si deve rispettare, traducendo, lo spirito profondo del testo e meno che mai soggiacere allo scrupolo di una pedissequa fedeltà alla sua lettera esteriore. Ci ho provato. Ho azzardato, per esempio, “bambina mia” per rendere il nomignolo greco parlante Leuconoe (‘ragazza dalla mente ingenua, candida’). Nessuno credo se ne scandalizzerà.

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La solitudine dei numeri secondi. Orazio, Petrarca e la “Sindrome ...
Tutto intorno a noi è traduzione – Cave canem

Odi I 9 [Vides ut alta]

Vedi come svetta il Soratte

bianco di neve alta. Le selve, vedi,

soffrono a sostenerla – e i fiumi

fermi, stretti nella morsa del gelo.

Disperdi il freddo, sul fuoco

getta legna sopra legna

e senza risparmio spilla

dall’anfora sabina a due

orecchie, Taliarco mio, il vino

vecchio di quattro anni.

Al resto pensino gli dèi, loro

così bravi a spegnere sul mare

in burrasca la battaglia dei vènti

che subito i cipressi smettono

di agitarsi, e gli ontani vetusti.

Non chiederti mai che cosa

ti riservi il domani: qualunque

giorno la vita ti regali

prendilo per un guadagno.

Non sdegnare la dolcezza

degli amori e delle danze

fintantoché vecchiaia e i suoi lamenti

sono ancora lontani. Il Campo Marzio

cercalo adesso,  le piazze adesso

e i carezzevoli bisbigli sul far

della sera, l’ora degli appuntamenti.

Adesso cerca l’incantevole riso

che risuona improvviso

dall’angolo dove lei s’è nascosta

e a te la rivela; e il pegno

che le sfilerai dal braccio

o dal dito che per finta

ti oppone resistenza.

Odi I, 4 [Solvitur acris hiems]

Ritorna primavera e il ponentino

scioglie l’inverno, e i suoi rigori.

Gli argani trascinano nel mare

le chiglie prosciugate delle navi. Ormai

non s’accuccia più il bestiame nella stalla

né il contadino accanto al focolare.

Non brilla più sui prati

il bianco della brina.

Citerea Venere guida nelle danze

i cori al chiaro della luna. Ninfe e Grazie

si tengono per mano – un incanto

a vedersi – e al ritmo alterno dei piedi

percuotono il terreno. Vulcano

trafelato fa visita ai Ciclopi

a controllarne il duro

lavoro d’officina.

Il mirto verde adesso, sì,

cinga le nostre tempie, oppure

il fiore che spunta dalle zolle

disserrate dal gelo. Adesso, sì,

sacrifichiamo a Fauno all’ombra

delle fronde, che sia agnella

o capro, come più gli piace.

Livida in faccia, Morte

bussa con piede equanime

alle porte di misere stamberghe

e di fortezze regali. Caro

il mio Sestio, la brevissima

misura della vita impone

di abbandonare ogni lunga

speranza. Già adesso ci incalza

Notte, e i Mani leggendari,

e la casa d’ombre di Plutone:

quando sarai laggiù, non tirerai

a sorte a dadi il re del vino,

né fisserai incantato

la giovinezza di Licida: per lui

arde adesso d’amore

la gioventù intera e presto

s’accenderà poco a poco

ogni ragazza in fiore.

Se non si scrive in proprio si può tradurre, riscrivere poesia altrui. La traduzione letteraria – questa benemerita – è stata definita in molti modi. Oggi mi va di spiegarla come un doppiaggio. Simile al doppiaggio del cinema. Dunque quello che leggete sopra (due odi celebri di Orazio) non vorrebbe assomigliare ai sottotitoli in traduzione di un film, bensì proprio a un doppiaggio. I sottotitoli sarebbero come la cosiddetta traduzione di servizio (quella ‘letterale’ che troviamo in tanti manuali scolastici o universitari). Il doppiaggio invece è una re-interpretazione in piena regola. Il doppiatore presta all’attore (cioè all’interprete originale) la sua diversa voce, la sua diversa lingua, ma anche una cadenza, un ritmo, un timbro suoi propri. Insomma: un po’ della sua personalità, della sua anima. Quello che ne risulta è una nuova interpretazione del personaggio che non è né completamente quella dell’attore né completamente quella del doppiatore, bensì un tertium figlio di entrambi. Operazione artisticamente tanto più riuscita quanto più il doppiatore rispetta sì l’originale ma anche e soprattutto sé stesso. Questo, fondamentalmente, penso sia la traduzione letteraria.

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