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Posts Tagged ‘Tucidide’

Presso la rivista online Letture.org è appena uscita una mia intervista intorno al mio volume miscellaneo di contributi di filologia e letteratura classica e leopardiana Noctes vigilare serenas, pubblicato alcuni anni fa presso l’editore Aracne:

L’intervista offre una riflessione sintetica, divulgativa e aggiornata su autori e tematiche affrontate nel libro. Vi si parla nella fattispecie di aspetti importanti della personalità e dell’opera di Esiodo, di Archiloco, di Tucidide, di Lucrezio e di Orazio, oltre che di Giacomo Leopardi. Credo perciò che possa risultare una lettura utile in sé (riguardando grandi scrittori del mondo antico e moderno) oltre che propedeutica, per chi volesse approfondire i singoli argomenti, alla conoscenza diretta del libro.

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Risultato immagini per vittorini

«Non l’hai fatto fuori?» «Era troppo triste». Finisce così Uomini e no di Elio Vittorini, con uno scambio di battute tra due gappisti reduci da una azione armata contro una pattuglia tedesca. Finisce, per me, con una sorta di dejà lu letterario. Con tutta probabilità Vittorini aveva letto Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, e conosceva la scena in cui due soldati italiani, arrivati senza farsi accorgere a tu per tu con un nemico ignaro e isolato, rinunciano a sparare a colpo sicuro:

«Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s’erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all’altra. Dicevo a me stesso: «Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così!»   Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esame di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: – Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: – Neppure io.».

L’episodio narrato da Lussu mi sembra in effetti il sottotesto ideale della laconica risposta del gappista di Vittorini: illumina cioè il tormentato sommovimento psicologico che vieta – eccezionalmente – a un soldato di uccidere, rivela la parte nascosta dell’iceberg di cui lo scambio secco di battute dei personaggi di Vittorini è la punta emersa. Homo sum, nihil humani a me alienum puto: per Vittorini sarebbe dunque la persistenza di questa fiammella di humanitas, non spenta dalla macchinale crudeltà della guerra, a tracciare la linea di demarcazione tra uomini e no. Come a dire: in guerra rimane uomo soltanto chi non dimentica di esserlo e sa ancora riconoscere nel nemico un proprio simile. Sarebbe: ho usato il condizionale, perché poi in realtà, in altri passaggi di Uomini e no, questo umanesimo di marca antica applicato alla nostra resistenza – questo modello antropologico per certi versi rassicurante perché facilmente condivisibile come oppositum della bestialità – è messo in discussione da Vittorini, o meglio superato da una riflessione più complessa e tragica. Dopo aver descritto la ferocia di Clemm, il capo delle SS che lascia sbranare dai suoi cani un partigiano prigioniero che ha obbligato a denudarsi, lo scrittore infatti commenta:

Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo. Lagrime? Ecco l’uomo. E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo. Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo? Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti, fate. Che cosa farebbero? Un corno, dice mia nonna. Può darsi che Hitler scriverebbe lo stesso quello che ha scritto, e Rosenberg lui pure: o che scriverebbero cretinerie dieci volte peggio. Ma io vorrei vedere, se gli uomini non avessero la possibilità di fare quello che fa Clemm, prendere e spogliare un uomo, darlo in pasto ai cani, io vorrei vedere che cosa accadrebbe nel mondo con le cretinerie di loro.»

No, purtroppo uomo non è soltanto quello che sempre, prima o poi, si ricorda di esserlo: l’Uomo di Menandro e di Terenzio, il gappista che rinuncia a sparare a un nemico che gli somiglia troppo. Quella è purtroppo una edificante eccezione. Una mèta, un imperativo morale, se non un miraggio. L’uomo nella realtà è soprattutto quello di Tucidide: l’ateniese che allo stesso tempo costruisce la più ricca e tollerante e civile comunità del mondo antico e che – per preservarla e accrescerla – stermina con consapevolezza e con automatica ferocia tutti gli isolani della piccola Melos solo perché la sua neutralità ne potrebbe disturbare l’egemonia. L’uomo può essere tutto e il suo contrario, ‘volgersi al bene come al male’, come già un grande contemporaneo di Tucidide, un poeta (non per caso) tragico come Sofocle, aveva proclamato nel primo coro dell’Antigone.

Uomini e no, riletto alla luce della complessità dell’opera, mi pare insomma un titolo fintamente assertivo e potenzialmente equivoco. Parrebbe dividere con nettezza tra ‘uomini/buoni’ e ‘belve/cattivi’, tra partigiani e nazifascisti. In realtà le pagine del romanzo confondono non poco l’apparente (e confortante) certezza di quel dualismo: approfondiscono cioè via via un lacerante dubbio di fondo, scoprono che quel titolo dissimulava piuttosto un interrogativo basilare circa la bontà della natura umana. E che a quella domanda l’autore ha dato alla fine, con una onestà etica e intellettuale che gli fa onore, una sofferta risposta negativa.

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Risultati immagini per resilienza tatuaggioDa una Resilienza reattiva a una Resilienza "Adattiva" - CYBERSECURITY &  RISK MANAGEMENT PROGRAM

« Resilienza. Chi sarebbe costei?» Così- lo confesso- reagii tra me e me, da perfetto Don Abbondio, quando una studentessa, brava e brillante ma troppo fiduciosa nella mia tuttologia, mi chiese consigli a proposito di una tesina di maturità che voleva intitolare in questo modo. Se non conoscessi il latino (che mi suggeriva grosso modo l’idea del “rimbalzare indietro o contro qualcosa”) quel vocabolo mi sarebbe suonato totalmente estraneo. Ne ignoravo l’accezione corrente pur intuendo che si trattava dell’ennesimo anglo-latinismo. Cercai subito sul dizionario che mi rimandava soprattutto a significati scientifici del termine. Poi scovai una voce nel sito dell’Accademia della Crusca che mi chiarì molto circa la storia di questa parola. Resilienza è infatti da qualche anno (specie dall’inizio della crisi economica) un termine alla moda e significa adesso (al netto di tutte le altre accezioni più e meno settoriali assunte nel corso dei secoli): capacità di assorbire i colpi della sfortuna, i mali della vita, e di saperli trasformare con positiva capacità di reazione in occasioni di riscatto. Un rimbalzo virtuoso, una risposta positiva – insomma – e vincente agli schiaffi del principio di realtà. Era su questo tema che la mia alunna intendeva costruire la sua tesina.

Ammetto che a questo punto mi ero illuso (e mi sentivo gratificato dall’idea) che resilienza potesse nobilmente riproporre, a suo proprio e aggiornato modo, un concetto davvero molto arcaico ma basilare della civiltà occidentale: quello che mi piace definire il pessimismo attivo o agonistico sul quale (o insieme al quale) è nata la civiltà greca. Per capirci: Ettore che combatte da eroe contro Achille a dispetto della certezza, appena acquisita, di un destino segnato; Esiodo che sprona il fratello al lavoro mentre per la specie umana – giunta alla sua massima degradazione nell’età del ferro – Zeus prepara il totale annientamento; gli eroi e le eroine della tragedia, da Edipo a Antigone, che sfidano un fato ineluttabile; i Meli che si oppongono (sapendo di soccombere) agli Ateniesi; fino al titanismo e alla ginestra di Leopardi.

Ma poi, indirizzato dalla pagina della Crusca, mi metto a cercare sul web e realizzo molto presto che resilienza non è altro che un modo di risignificare il solito (americanoide) ottimismo obbligatorio, la fiducia il-limitata nel proprio successo contro le avversità, l’ illusione che lo stretto limite segnato dal dolore e dalla sconfitta all’agire umano si possa comunque superare, purché si abbia l’energia e il coraggio di tentare. Non per caso il tatuaggio di questa parola è diventato una moda a partire (guarda guarda!) dall’esempio di un imprenditore nostrano che ha avuto grande successo sul web. No, mi sono detto, non può venire nulla di serio – antropologicamente parlando – dal cervello di un industriale che si mette a filosofeggiare, se non la solita minestra riscaldata (ma pur sempre appetibile) di facili ricette edificanti. Questa resilienza è infatti il desiderio che si sostituisce alla realtà anziché confrontarsi attivamente con essa. Una parola nuova e furba, adattata ai tempi della crisi, che ricicla slogan vecchi o vecchissimi: volere è potere, yes we can, le magnifiche sorti e progressive, suae quisque faber fortunae etc. Così intesa la resilienza non propone altro che la solita rimozione del male, dello scacco e della morte, inciampi intollerabili per una civiltà ancora ubriaca di edonismo e sempre avvelenata dal vangelo consumistico- aziendalista.

Questa resilienza qui – una patacca, credetemi – non ha proprio niente a che fare con il pessimismo agonistico degli antichi greci. Per il semplice motivo che pretende, assurdamente, che il male – quando si presenta – sia in un modo o nell’altro destinato alla sconfitta purché noi sappiamo debitamente combatterlo. La morale perversa di questa storia è sempre la stessa: la sventura abbatte solo chi non sa affrontarla. Ergo: lo sventurato è in certa misura colpevole della sua sventura, almeno in quanto non sa attrezzarsi per contrastarla. Non è insomma, poverino, adeguatamente ‘resiliente’.

Gli antichi Greci (i fondatori della nostra civiltà) dicevano invece che quel male vince sempre, alla fine, a prescindere dalla virtus di chi lo affronta o lo subisce. Che quel cerchio che ci stringe è comunque insuperabile. Ma che nonostante questo bisogna combattere, espandere con tutta l’energia la propria virtù per tutto il limitato spazio che ci è concesso. Ben altra musica. Il loro era un eroismo disperato e tragico, ma comunque fattivo. Una sfida ad un limite inamovibile e fatale, alte haerens. Un destino che non si sognavano di ridurre a variabile dipendente di uno pseudo-umanesimo da telenovela o da spot pubblicitario.

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Ancora sugli slittamenti semantici in peggio:

1) solare. Aggettivo. Originariamente e prevalentemente usato in ambito tecnico scientifico (macchia s., orologio s., sistema s. ecc.), ultimamente è molto impiegato metaforicamente per qualificare un carattere ottimista e positivo e nel contempo limpido, schietto, incapace di menzogna e di doppiezza. Proprio questa diffusa accezione traslata mi pare stia favorendo nell’uso comune un ulteriore, subdolo slittamento in senso deteriore. Ho sentito diverse persone servirsene come di un eufemismo malizioso per etichettare qualcuno di eccessiva ingenuità o addirittura di stupidità. È un po’ la sorte di molti di questi significanti che denotano la bontà e la schiettezza dell’animo umano (si pensi a buono: ‘un buon uomo’): quella di veicolare ironicamente e velatamente un significato irridente e offensivo. Un meccanismo che (p.e.) già Tucidide, prima, e Leopardi, poi, avevano ben rilevato. Una spia linguistica di quale reale considerazione godano, al di là degli omaggi ipocriti che ricevono, schiettezza e bontà d’animo.

2) declinare/ declinazione. Verbo e suo astratto deverbativo. Fino a qualche anno fa, oltre che apparire in qualche frase fatta piuttosto formale (declinare un invito, declinare dai propri principi), questi termini erano familiari soprattutto agli studenti dei licei alle prese con il latino. Declinare, p.e., ros-a, ros-ae ecc. significa infatti – notoriamente – snocciolare il paradigma delle terminazioni variabili di una parola latina (e di tutte quelle del suo gruppo o, appunto, declinazione) in relazione alle varie funzioni logiche (soggetto, complemento di specificazione, termine) che ciascuna terminazione esprime. Un’accezione piuttosto tecnica e settoriale e davvero poco poetica. Adesso invece, da pochissimi anni a questa parte, questi due termini hanno conosciuto – nei media- una enorme diffusione come sinonimi di usare/interpretare/rielaborare qualcosa in un modo particolare/ personale/originale. Esempi: una declinazione umanistica del marxismo (per dire: una interpretazione); Quell’artista declina (cioè interpreta/ripropone) l’astrattismo in una chiave figurativa. Come a dire anche: ‘propone un paradigma dell’astrattismo diverso da quello tradizionale’ (cioè altera a suo modo il modello di riferimento; come se – verrebbe da dire per razionalizzare lo slittamento – uno declinasse rosa rosae in un modo diverso dal solito, inventandosi una sua peculiare grammatica). Ma la mutazione è così recente ed arbitraria che nessun nostro autorevole dizionario la registra ancora. Fatico a capire l’origine di questa improvvisa e fortunata forzatura semantica, non trattandosi nella fattispecie (per quello che mi risulta) di un anglicismo tra i moltissimi che ci stanno colonizzando. Più facile e banale, forse, capire il perché del successo. Declinare, rispetto a interpretare/riproporre è sentito evidentemente, da chi lo usa, più chic, più intellettuale, più moderno, più à la page rispetto agli altri tradizionali sinonimi, benché non aggiunga nulla a quelli né per ricchezza né per precisione o chiarezza espressiva. Anche nella lingua la moda ha il suo peso, specie quando si tratti di un registro intellettuale o intellettualoide. C’è chi pensa, evidentemente, che il nuovo che piace e che suona bene sia perciò stesso più bello e più corretto e (soprattutto) più seducente e abbagliante del vecchio. [Leggo per altro in Plutarco (L’arte di ascoltare, 7c): «Un modo di esprimersi brillante e fastoso acceca l’ascoltatore e gli impedisce di cogliere i concetti». Nihil novi.]

PS del 26/10/23: su declinare e sugli abusi che se ne fanno esiste adesso una ricca e documentata pagina della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/ma-quante-declinazioni-per-il-verbo-declinare/11091

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Civiltà tra le più misogine dell’antichità, quella greca nutriva una inconfessabile percezione della dignità, dell’intelligenza e della ricchezza dell’animo femminile. Inconfessabile, ma profonda. Se così non fosse, non esisterebbero nell’immaginario mitico e letterario della grecità personaggi come: Elena, Andromaca, Ecuba, Calipso, Circe, Nausicaa, Penelope, Clitennestra, Elettra, Alcesti, Medea, Antigone, Ismene, Deianira, Cassandra, Lisistrata… Un campionario di umanità (nel bene e nel male) decisamente più ricco, autentico e vario di quello maschile.

Un paradosso, se è vero che sul piano giuridico, sociale e politico la donna era considerata e trattata quasi ovunque in Grecia come una nullità; nell’ambito familiare era proprietà del padre, prima, e poi del marito. Non poteva quasi mai uscire di casa. Non poteva ereditare. Non poteva testimoniare in tribunale. Nell’età classica e nella evoluta Atene del V secolo, un geniale e modernissimo storico come Tucidide nutriva un sovrano disprezzo per il genere femminile e ancora nel IV secolo un poligrafo e ‘saggista’ conservatore come Senofonte ribadiva netto e chiaro che l’unico regno della donna era la casa, e tutto il resto – fuori -, dal potere politico all’eros extraconiugale, era pertinenza del maschio.

Contraddizione sorprendente, non inspiegabile. Rivelatrice, direi, di come autori dell’antica poesia (epica, tragica, lirica) percepissero la figura femminile al di là dei condizionamenti del contesto storico-culturale che tanto la deprezzava e la marginalizzava. Segno in ultima analisi della stra-ordinaria capacità dell’arte, specie (e paradossalmente) nelle sue forme più genuinamente creative e fantastiche, di scandagliare e squadernare la verità nella maniera più spregiudicata, anticonformista e liberatoria rispetto alle gabbie ideologiche di un qualsiasi sistema di potere. Non per caso arte e potere fanno tanta fatica ad andare d’accordo.

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Diverso tempo fa un genitore, mentre si parlava durante un colloquio non ricordo più di quale argomento pedagogico, se ne uscì con una affermazione tanto accorata quanto perentoria: Se si vogliono educare i giovani, l’ultima cosa che si deve fare è uccidere le loro speranze!

Una frase che lì per lì mi colpì e poi mi rimase inchiodata dentro, per un po’, dopo quel colloquio.

Come succede per le belle, apodittiche sentenze, quelle che paiono creare e significare per il solo motivo che suonano bene.

Come succede quando una di queste frasi – così categoricamente accusatorie – vanno involontariamente ad affondare il dito nella piaga di qualche nostro inconsapevole, oscuro senso di colpa.

Avevo forse commesso anch’io quell’ errore così imperdonabile?

Mi ero mai macchiato dell’orribile colpa di omicidio delle speranze giovanili?

No, non era possibile – mi risposi fra me e me, su due piedi. Altri forse l’avranno fatto. Non io che ho sempre insegnato l’agonismo degli eroi greci, il vitalismo dei poeti antichi, il culto della virtù e della saggezza che infiamma tanti autori classici…

Ma poi cominciai a riflettere che proprio lui, il padre Omero, al culmine della scena del duello fra Ettore e Achille (quella che leggo sempre a ragazzini sedicenni), ci presenta il troiano ormai di fronte a un destino segnato, pesato poc’anzi sulla bilancia della sorte da Zeus in persona – e il piatto è sprofondato giù, nell’Ade, senza rimedio. Atena fedifraga, che aveva illuso Ettore presentandoglisi sotto le mentite spoglie del fratello Deifobo, passa scorrettamente le lance ad Achille. Ettore di colpo capisce. Capisce tutto. Che non si tratta del fratello, ma della dèa che lo perseguita e che sta collaborando col suo avversario e col fato per farlo morire.

Ettore in quel momento non ha più speranze. Gli dèi stessi gliele hanno uccise prima che egli stesso sia ucciso dalla lancia di Achille:

M’è accanto ormai la mala morte, non è più lontana

né la si può evitare […] Ormai m’ha raggiunto la Moira

E allora che fa? Si rassegna alla sconfitta? Si lascia abbattere senza resistere? Rinuncia alla lotta?

Neanche per sogno:

Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morirò,

ma avendo compiuto qualcosa di grande, tale

che anche i posteri lo sapranno. 

[Iliade, XXII, 300ss.]

Ettore è uno che lotta di più proprio quando gli hanno già ammazzato la speranza. Un paradosso. Valli a capire questi Greci antichi che traevano il coraggio di agire dalla disperazione.

Vai a capire anche Esiodo, quello che raffigura la speranza come un male rimasto intrappolato nel vaso di Pandora; e tratta pure da sciocchi i contadini suoi colleghi che, anziché lavorare sodo, si affidano alla speranza vuota di una stagione favorevole e di un tempo atmosferico propizio.

Vai a capire anche Sofocle che santifica Edipo solo quando il dio lo ha indotto a strapparsi di dosso tutte le illusorie aspettative di essere un benefattore (potente, intelligente, innocente) dei suoi sudditi e lo ha fatto accecare davanti allo specchio rivelatore della sua orribile e colpevole e disperata nullità.

Prova a capire pure Tucidide che, per bocca degli Ateniesi, fa dare degli ingenui ai Meli perché si affidano alla speranza che gli dèi (oltre che gli Spartani) li aiuteranno contro nemici più potenti di loro…

Speranze, speranze, ameni inganni…. toh, il mio caro Leopardi! Per fortuna non lo insegno, ma ogni tanto in classe, per troppo amore, lo cito; e di lui mi viene in mente pure una delle ultime frasi dello Zibaldone, ripresa poi nel Dialogo di Tristano, dove si dice, più o meno, che la maturità vera e il più grande eroismo di un essere umano consistono nell’accettare l’idea di non avere nulla a sperare.

Accidenti: io tratto a scuola questi autori, propino queste lugubri elucubrazioni di cervelli malati di pessimismo, potenziali, esiziali corruttori della gioventù? Dunque, se non sono un killer delle speranze giovanili, sono quanto meno accusabile di apologia di reato o di favoreggiamento….

Aveva dunque ragione quel genitore.

Il suo anatema mi riguardava, in qualche modo.

Questi bandierai del pensiero negativo, questi antiquati autori dell’antiquata grecità – questi hope killers – andrebbero rimossi dalla scuola!

Insieme ai prof che ancora li insegnano.

Un motivo in più per abolire il liceo classico.

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