«A chi afferma che la lotta di classe è un rottame ideologico di un’epoca lontana, [tu] spiega come essa esista ancora, ma a parti rovesciate. Sono i ricchi, adesso, a combattere contro i poveri. La lotta di classe i ricchi l’hanno già vinta e stravinta, ma ancora non sembrano volersi accontentare»
Arguta e amarissima constatazione, questa, che leggo nell’ultimo, cólto e brillante libretto di Linnio Accorroni Like me. 100 semplici mosse per piacere a tutti sui social ed in società (Tombolini Editore, Loreto 2016, p. 61) alla quale vorrei aggiungere in ordine sparso – e in veste di osservatore profano – qualche postilla.
Diceva tempo fa Roberto Saviano (in una intervista rilasciata a La lettura) – a proposito delle ultime elezioni presidenziali americane e dell’onda montante del cosiddetto populismo nel mondo occidentale – che molta gente adesso si consegna politicamente a demagoghi beceri, dozzinali, sguaiati, inaffidabili ecc. perché diffida oramai profondamente (cito a memoria) delle buone maniere accompagnate magari da un modo lindo e accattivante di parlare, di vestire, di gestire i rapporti umani. Verissimo. La categoria sociale e antropologica “gentile” cui Saviano allude è quella dei nuovi ricchi e di coloro che servono alla loro causa e al loro sistema. Fredda maschera di cortesia. Pugno di ferro in guanto di velluto. Questo sistema di potere economico, come si sa, è sempre più sovranazionale sì (“globalizzato”), ma altresì sempre più chiuso, iper-elitario e an-osmotico (im-permeabile): accumula ricchezza e privilegio escludendo sempre più quanti prima indirettamente ne beneficiavano.
Da piccolo, alle elementari, negli anni sessanta – quando si era ancora in pieno boom economico – capitò per puro caso che il mio maestro ci spiegasse nella stessa mattinata il problema – già allora molto acuto – della fame nel terzo mondo e l’esperimento fisico dei vasi comunicanti. Nella mia ingenua e generosa fantasia infantile pensai subito che per risollevare dalla fame i paesi poveri il sistema dei vasi comunicanti potesse essere la soluzione: mettere in comunicazione le economie del primo e del terzo mondo, fornirgli le nostre tecnologie, aiutarlo a svilupparsi. Subito dopo però realizzai che se questa “comunicazione” si fosse avverata, inevitabilmente il livello del benessere economico (come quello dell’acqua nei vasi comunicanti) sarebbe sì aumentato da loro, ma diminuito da noi… Non ero certo, a dieci anni, un economista né, tantomeno, un profeta. Si trattava di un elementare ragionamento per analogia. Questa comunicazione si è a suo modo avverata oggi e la si chiama globalizzazione economica. Ma non è proprio così come la immaginava il mio cervello infantile. L’economia di alcuni paesi allora poveri è sì molto cresciuta mentre la nostra – come prevedevo allora – si è impoverita. Ma questo riequilibrio non ha toccato tutti gli strati della società. Nuovi e grandi ricchi del terzo mondo hanno affiancato vecchi (e nuovi) grandi ricchi del vecchio mondo. Si è formata una potentissima oligarchia economica e finanziaria traversale mondiale. (non saprei dire se sistematicamente organizzata ma certo sempre più strettamente interrelata). La comunicazione dei vasi non ha tuttavia funzionato allo stesso modo negli strati medio bassi della società: essa ha altresì impoverito e quasi distrutto le classi medie del vecchio mondo senza elevare (che io sappia, almeno non omogeneamente) il benessere economico delle classi diseredate del nuovo mondo. Non si spiegherebbe altrimenti da una lato la delocalizzazione delle industrie dal primo al secondo e dall’altro l’epocale dramma delle migrazioni dal secondo al primo. L’economia mondiale, sempre più in difficoltà per la crescita demografica e la diminuzione complessiva delle risorse, si va assestando su due piani (o due sistemi di vasi) sempre più in-comunicanti: quello nobile e quello ignobile. Insomma: i ricchi e i poveri. Tra questi ultimi, però, i neo-poveri, faticando a disabituarsi al benessere del recente passato, si illudono ancora di far parte del piano nobile e riluttano con tutte le forze a lasciarsi trascinare e murare nel sottoscala. Così combattono esclusivamente, anziché contro i nuovi ricchi, contro i vecchi poveri. Una tragedia globale destinata a protrarsi e ad acuirsi – temo – nei prossimi decenni, con chissà quale epilogo (escluderei qualsiasi imminente e benefico deus ex machina).
Ma anche se vecchi e nuovi poveri si coalizzassero non avrebbero armi, materiali e ideali, per farsi valere. I nuovi ricchi infatti hanno nel frattempo stravinto (come afferma Accorroni) la loro guerra di classe anche e soprattutto culturalmente, da un quarantennio a questa parte, favoriti inizialmente dal cosiddetto crollo delle ideologie. In realtà l’unica ideologia che è crollata, anzi deceduta di morte naturale dopo una lunga agonia assistita, è stata quella del comunismo reale. Questa estinzione ha spalancato le porte al pensiero unico liberista e neo-schiavista. Un’ideologia che ha ricevuto da quella ingloriosa e pur inevitabile estinzione le stimmate di una sacrosanta e indiscutibile religione.
È un paradosso amaro che la nostra epoca, culmine dello sviluppo tecno-mediatico, stia reintroducendo in nome di quella religione, ma senza proclamarlo (anzi: dissmulandolo con retorica consumatissima) la pratica della schiavitù. Amaro e paradossale prodotto di una rivoluzione antropologica recente. Questa rivoluzione (consumatasi negli ultimi 30 anni) prima ha eletto teoricamente l’individuo e i suoi diritti a vertice intoccabile della nuova piramide di valori. L’individuo nel senso etimologico del termine, come entità indivisibile e pertanto refrattaria alla condivisione: in greco antico, sintomaticamente, la parola corrispondente sarebbe atomos. Ha inoculato poi come un virus l’idea che la liceità per tale individuo di espandersi a danno di altri sia illimitabile. Ha quindi rimesso praticamente in gioco la primitiva legge del più forte spacciandola per civile apoteosi della libertà. Il liberalismo si è ammalato, è mutato in un liberismo animale che adopera ancora la legge e le leggi solo per tutelare la propria volontà di affermarsi e rigenerarsi all’infinito. Così squali sempre più smisurati e ingordi hanno rapidamente popolato e dominato il mare dell’economia mondiale. Alla loro voracità si aggiunge la diabolica astuzia di nascondersi ai radar sempre più deboli del controllo dell’opinione pubblica, mascherandosi dietro la nebbia anonima ma minacciosa e numinosa del potere dei mercati. A tutti gli altri pesci (atomicamente divisi e dispersi) il destino di emularli rischiando di esserne divorati, oppure di rassegnarsi a procurare loro tutto il cibo che desiderano accontentandosi delle briciole. Così sta rinascendo la schiavitù. Molto peggiore di quella del mondo antico, dove la subordinazione totale al padrone era in certa misura alleviata da forme di paternalismo e di garanzia minimale di sopravvivenza.
Ultimamente alcuni gruppi organizzati di studenti hanno protestato contro la famigerata ASL (Alternanza Scuola Lavoro) accusandola di essere una maschera legale dello sfruttamento a costo zero del lavoro giovanile. Per quanto io non simpatizzi con le proteste studentesche degli ultimi decenni (spesso stancamente ritualizzate) devo riconoscere che, nel merito, essi hanno stavolta ragioni da vendere, soprattutto se si parla della ASL degli studenti liceali. Le cronache dei giornali e l’esperienza dei ragazzi di liceo e dei docenti che li hanno seguiti, è zeppa di clamorosi esempi di esperienze di ASL che nulla hanno a che vedere con un serio avviamento al mondo del lavoro; molto invece con una spudorata pratica di abuso di manovalanza gratuita giovanile. Spudorata e per di più pericolosa, perché ideologicamente legittimata. Il nuovo slogan è: lavora gratuitamente per il tuo curriculum. Così può accadere che uno arrivi a 40 anni con un curricolo nutritissimo di “crediti” (esperienze, lavori, lavoretti e stage) senza quasi aver messo un becco di quattrino in tasca.
Nel contempo però imperversa la retorica della meritocrazia, la mistica del colloquio individuale di lavoro. I giovani vengono catechizzati allo scopo da manuali, corsi, trasmissioni televisive. Ognuno è spinto a interpretare se stesso così come il moloch del sistema finanziario e imprenditoriale vorrebbe che sia: appetibile, pronto, scattante, simpatico, disponibile, ottimista, malleabile, flessibile, soprattutto docile. Una corsa indecorosa all’ubbidiente omologazione che marginalizza sempre di più lo spirito critico, l’originalità, la diversità dei singoli quando non si pongano al servizio esclusivo delle esigenze superiori della produttività. Questo nuovo modello antropologico è ormai così imperante nei media da contagiare la pubblicità, formidabile specchio replicante – e sempre vigile – del mainstream: è di questi giorni lo spot di un antinfluenzale utile a evitare le assenze in ufficio e le gravi conseguenze che ne deriverebbero per la serenità dei colleghi e per gli utili dell’azienda.
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