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Posts Tagged ‘letteratura’

Risultati immagini per silvia e leopardi

Parla di se stesso, anche quando non parla di se stesso.

Non parla di se stesso, nemmeno quando parla di se stesso.

 

Facile e paradossale indovinello letterario.

Il primo paradosso ha un senso scontato, perché non c’è – ripeto – opera di intenzione e di valore artistici (per quanto scritta con la oggettività, il distacco, il senso di alterità che ogni arte, in varia ma necessaria misura, richiede) che non discenda in primis dall’io profondo dell’autore e dal suo più autentico, talora altrimenti inconfessabile o inesprimibile, vissuto. Niente perciò possiamo degnamente rappresentare in letteratura che non sia sperimentato, sofferto e sedimentato nelle regioni più intime – consapevoli, inconsce o semiconsce che siano – del nostro essere.

Il secondo paradosso (in apparente contraddizione col primo) è altrettanto vero ma forse meno ovvio. Per capirlo bisogna essere educati alla poesia quel minimo che serve per non banalizzarla né svilirla da puerili lettori provinciali: quelli che credono (o tendono irresistibilmente a credere) che l’io che scrive e quello che vive siano esattamente la stessa, identica persona; e che scrivendo non si possa far altro che travasare pari pari sulla pagina la propria vita quotidiana, le proprie vicissitudini concrete e via banalizzando. Sono quei lettori che di fronte a un testo come A Silvia di Leopardi non sanno far di meglio che compiangere la sfortuna di un poeta deforme e di una bella ragazza della finestra di fronte, morta anzitempo di tisi, di cui Giacomo si era segretamente invaghito. E non riescono a capire che nel destino di Silvia e di Giacomo è rappresentato, con una bellezza del significante pari alla tragicità del significato, il destino di tutti. Sembra strano, ma l’alto tasso attuale di scolarizzazione e di (presunta) familiarità col testo letterario non impediscono ancora a moltissimi di sentire con piccineria la grande letteratura. Di leggerla, purtroppo, come si legge un giornale (o si assiste a un programma) di cronaca vera o di gossip. Bisognerà che la scuola lavori su questo e che lo faccia – cosa difficile – in dichiarata controtendenza rispetto ai media.

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È appena uscita  in Alla volta di Leucade una lunga, colta ed approfondita recensione di Nazario Pardini alla mia raccolta di poesie Chiasmo apparente. Invito a leggerla in:

http://nazariopardini.blogspot.it/2016/03/n-pardini-lettura-di-chiasmo-apparente.html

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Ancora un’anteprima in rete: quella del mio nuovo libro di poesie Chiasmo apparente che sarà pubblicato tra poche settimane da LietoColle: nel sito dell’editore è già disponibile l’incipit della raccolta:

Fai clic per accedere a Paolo-Mazzocchini-Chiasmo-apparente.7-15.pdf

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 Risultati immagini per affresci antica roma Risultati immagini per parlare al telefonino

La parola come tentazione retorica, la seduzione della ricchezza e dell’eccesso verbale sono il peggior nemico della scrittura: perché, come nella scultura, così nella letteratura (specialmente nella poesia) il meglio lo si ottiene dal levare piuttosto che dall’aggiungere materiale, dalla selezione più che dalla sovrabbondanza. Così anche in certi affreschi dell’antica Roma, dove tratti rapidi e sommari catturano una realtà nella sua interezza, con una efficacia pre-impressionistica da far invidia ai moderni.

A depauperare la pregnanza e il valore dell’espressione verbale oggi contribuisce molto la proliferazione dei mezzi comunicativi a disposizione: telefonini, iphone, computer etc. Una diabolica istigazione allo spreco, alla dissipazione frivola, (etimologicamente) insensata della parola in messaggi e messaggini inutili, dove la brachilogia forzata della comunicazione si coniuga in maniera nefasta con l’approssimazione sintattica, la miseria lessicale e la banalità assoluta dei contenuti. Una deleteria vittoria dei verba sulle res, degli (in)significanti sui significati. Un chiacchiericcio vuoto che vorrebbe riempire il vuoto. Destinato in realtà a disperdersi nel vuoto.

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Risultati immagini per letture di poesia estive

Se non vuoi che il tuo nome se lo porti

via il vento, non talento non lacrime

non sudore di sillabe o segreto stridore

di lima varranno né trucioli di pelle

viva su caratteri morti, non calcina

di latte né fior di farina a gonfiare

focacce immortali, fragranti di sdegno

e d’amore; se non vuoi che il tuo nome

lo rapini via il tempo, lo confonda

la schiuma con la sabbia d’argento

hai da essere desto a inventarti

un evento: sulla riva del mare tra

distratti bagnanti nelle sere d’estate

snocciolare compunto epigrammi rimati

o cantare sonetti nel teatro di fronde

di un poetico parco infestato di insetti

a turisti in bermuda dai palati sottili

stravaccati in sedili succhiando gelati

e fingendo pensosa, appuntita attenzione

mentre sale – in un’aria affebbrata

dall’ipnotico ritmo del tuo cuore

snudato – l’afasia compulsiva del tuo

oscuro universo, la fatidica nenia

del tuo vivere perso.

Scrivevo in un altro post (I vantaggi dell’impostura) che non amo particolarmente le performance pubbliche dei poeti. Beninteso, esse sono sempre meglio di altre forme di spettacolo molto più dozzinale; ma le trovo inopportune se non assurde: questo recupero della dimensione orale-teatrale di un arte che da decenni si è sempre più chiusa in forme espressive ermetiche, cerebrali, esoteriche è in effetti oramai una contraddizione in termini; il carattere libresco e ultra-elitario di tanta poesia (o pseudo-poesia) moderna cozza con la pretesa di divulgarla in contesti e con mezzi propri della cultura di massa. Inoltre, anche ammesso che esistano forme di poesia accessibili ad un ampio pubblico, io non vedo utilità né decoro nel fatto che un autore di poesia si proponga oggi quale primo presentatore (lettore, commentatore e recitatore) dei propri testi, un po’ come p.e. Benigni fa con quelli di Dante. Non solo la cosa è sconveniente in sé (mi pare) ma è anche didatticamente e artisticamente poco credibile, se si parte dall’assioma difficilmente contestabile che un autore è di norma, e in tutti i sensi, il peggiore interprete di se stesso. Non solo: se la fortuna di un autore dipende soprattutto dalle sue capacità di autopromuoversi davanti a un pubblico reale o virtuale, allora giocoforza si affermeranno non proprio i bravi poeti, ma soprattutto i bravi intrattenitori, recitatori, attori ecc. Aggiungiamoci poi che l’accesso agli ‘eventi’ che permettono la maggiore visibilità (festival, recital, reading ecc.) è regolato spesso non dal valore effettivo dell’autore, ma dalle sue ‘entrature’ con le varie lobby e conventicole letterarie ed editoriali, ecco allora che il quadro meritocratico è completo…

Ma al di là di queste poco confortanti controindicazioni, il poeta che promuove se stesso è un controsenso più che altro perché un testo letterario, una volta che sia stato prodotto, non ha (e non dovrebbe avere) a mio parere nulla più a che fare con il suo autore: diventa un patrimonio di tutti quelli che vogliono leggerlo, recitarlo, interpretarlo. L’autore che si intromette nei suoi testi per mediarli con la sua presenza fisica, mimetica e vocale, vincolandoli alla sua persona individuale e storica, rischia di ridurre o compromettere – anziché dispiegarla – la loro sovrapersonale e universale ampiezza di significazione.

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Risultati immagini per ultimo giorno di scuola

In questa stiva ombrosa, allagata

di sola luce artificiale il comandante

raccatta le sparse esche di una esoterica

mensa, carezza con prudenza la barra

del timone della nave che attracca piano

al molo del tempo usato. In quello lento

e astratto della navigazione si è faticato

intanto a trattenere il fiato, ad osservare terre

dal largo, noi stessi da lontano, a dirimere

il monte dal piano, dal cielo il mare, le luci

delle case dagli occhi delle stelle. Poco e

non poco. Adesso però un selvatico tramestio

di piedi, oltre gli oblò, precipita esultando

per la magica scaletta sul pontile. La scuola

è finita. Sull’arenile spensierato evade

finalmente la vita, il presente, l’ubriaca

giovinezza dell’estate.

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Chi fa letteratura non può che parlare di se stesso. Non ha altra fonte cui abbeverarsi o altro albero da cui nutrirsi se non quelli del proprio vissuto. Vale a dire l’immagine dell’uomo e della realtà che le lenti deformate della sua coscienza e della sua esperienza gli permettono di osservare. E tuttavia, quando maneggia letterariamente se stesso, l’autore deve farlo con la massima cura. Guardare e non toccare. Non farsene toccare. Osservarlo come attraverso un vetro infrangibile, dentro una teca o sotto l’occhio spesso del microscopio o del binocolo, come si trattasse dell’io e della vita di un altro. Oggettivarlo. Fatica ingrata e crudele. Ma indispensabile per creare qualcosa di buono.

La stessa legge vale per i grandi temi che emotivamente, istintivamente – come esseri umani – ci (scrittori e lettori) coinvolgono: la vita e la morte, il tempo e l’eternità, l’amore e l’odio, il bene e il male. Guai a trattarli troppo scopertamente. Senza nasconderli. Senza distanziarne adeguatamente – foscolianamente – la fiamma. Senza dissimularli dietro un disviante, torturante ‘parlar d’altro’.

Ma una volta fatto salvo questo presupposto irrinunciabile di straniamento e/o di allegoria – cioè d’apparente, astuta, disinvolta esibizione di distanza/estraneità rispetto a ciò che invece più ci sta a cuore – non c’è opera letteraria di qualche peso che non parli sostanzialmente di: vita, morte, odio, amore, bene, male ecc. Come non c’è autore che non parli, sotto qualsiasi forma, di se stesso.

Quando – per esempio – Giovanni Verga narra di Rosso Malpelo o dei contadini rivoltosi di Libertà, sembra prestare la sua arte a una funzione eminentemente storico/documentaria della Sicilia del tempo. In realtà la sottomette soprattutto all’urgenza di esprimere la sua propria (e tragica, e metastorica e, direi quasi, naturalistica) visione della società umana.

 

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Leggo nell’ultimo Domenicale del Sole24ore una nota di diario di Paola Mastrocola che con molte ragioni stigmatizza la tendenza sempre più diffusa di scrittori e poeti a farsi performer, teatranti, promotori, lettori e interpreti di se stessi nella veste di attori e di star mediatiche. Questo avviene – aggiungerei – non solo per i pochi autori in vista sostenuti dalle grandi case editrici, ma anche – anzi direi ancora di più, sebbene in scala adeguatamente ridotta o circoscritta – per la pletora di noi piccoli, sconosciuti e semisconosciuti, ansiosi di emergere dall’anonimato. Ci sono molti di questi miei simili che si dibattono fra mille presentazioni, eventi materiali e virtuali, reading in librerie, locali pubblici, ristoranti, scuole, luoghi turistici ecc. ecc.

Niente di nuovo sotto il sole, in realtà.

Nell’antichità classica, specie nell’età proto-imperiale romana, andavano di moda le recitationes: poeti e poetastri si esibivano recitando i propri versi nei teatri e negli auditoria ed obbligando moralmente amici, conoscenti, clientes a intervenire, numerosi e spesso annoiati, per ascoltarli. Questo obbligo era difficilmente eludibile per gli invitati, soprattutto se anch’essi appartenevano al mondo delle lettere. E quindi si aspettavano prima o poi di essere a loro volta ricambiati del favore della presenza altrui nel momento in cui avessero essi stessi inscenato una propria recitatio.

Così si instaurava un circolo vizioso di reciproco ossequio che teneva in vita questo tipo (spesso moralmente, oltre che artisticamente, deleterio) di manifestazioni. Così si favoriva in quel genere di letteratura – per la consapevolezza del rischio sempre incombente della noia e della disattenzione di un pubblico scarsamente motivato – la tendenza ad uno stile enfatico, ‘urlato’, oppure ultra-artificioso; e il ricorso a toni e a temi di facile effetto: sangue, violenza, pathos elevati alla massima potenza…

Letteratura (o pseudo- letteratura) che si trasformava continuamente in spettacolo.

Nulla di sostanzialmente diverso, ripeto, da quello che accade oggi.

Ma oggigiorno la smania esibizionistica di letterati o sedicenti tali è, sicuramente, centuplicata rispetto ad allora. Direi ossessiva, parossistica.

Non potrebbe essere diversamente. Perché emergere tra migliaia e migliaia di concorrenti (quanti sono oggi in Italia gli aspiranti scrittori, sulla carta e nel web) davanti allo sterminato pubblico dei media, non è la stessa cosa che rivaleggiare (come avveniva nell’antichità) con pochi altri letterati esibendosi davanti a qualche decina di amici e conoscenti.

Tanto più che il pubblico di oggi (benché potenzialmente enorme e teoricamente scolarizzato) è in realtà molto più refrattario alla letteratura, perché attirato da ben altre forme, più popolari e immediate, di intrattenimento.

E siccome l’oralità e l’immagine sono ormai da decenni tornate a farla da padrone rispetto alla faticosa e antiquata pratica della lettura, ecco che gli scrittori debbono farsi conferenzieri, intrattenitori, guitti, istrioni…

Un poco impostori, diciamolo pure, come diceva due secoli fa, di molti suoi colleghi, il vecchio Leopardi.

Il quale sosteneva, due secoli fa, che possedere una buona dose d’impostura riesce sempre, almeno nell’immediato, ad avvantaggiarti su chi ne è privo, per quanto ricco sia di talento.

Difficile – oggi più che mai – dargli torto.

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AGORADIO (www.agoradio.it; Fm 93.100) trasmetterà in questa settimana (fino al 20 luglio) una intervista rilasciata a Maria Lampa sul mio libro di poesie Zero termico, secondo il seguente programma di repliche:

Mercoledi 16 Luglio, ore 18,30 web
Giovedi 17, ore 20,30 web+Fm 93.100
Venerdi 18, ore 10,30 web
Sabato 19, ore 17,30 web
Domenica 20, ore 10,30 web

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Zero termico - Mazzocchini Paolo - wuz.it

È da oggi disponibile o ordinabile presso librerie e bookshop on line il mio primo libro di poesie ZERO TERMICO, edito da Italic Pequod (http://www.italicpequod.it/italicpequod/?p=2515%5D).

Anticipo qui un passaggio della quarta di copertina:

«Lo zero termico è lo stato intermedio tra l’acqua e il gelo. La fine del ghiacciaio o l’inizio del fiume. È il punto in cui la ragione e l’istinto si toccano. Qui la trasparenza del pensiero può intorbidarsi del flusso degli impulsi così come la liquida instabilità della coscienza può irrigidirsi nel cristallo della parola. È una condizione incerta, aperta in opposte direzioni: come l’età di mezzo in cui sono state composte queste poesie, sospesa tra i fuochi di un giorno che rilutta a spegnersi e l’ambigua, insidiosa seduzione della sera. Lo zero termico è la temperatura del vetro che unisce o separa le ombre bianche, severe dell’inverno dall’angolo in cui brilla ancora l’estate del simposio.»

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