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Posts Tagged ‘Recalcati’

La scuola è ricominciata da poco. E quando la scuola ricomincia se ne parla un po’, come da rito, sui media, così come se ne parla un po’ anche a giugno, al termine delle lezioni. Poi, per lo più, cala il silenzio, salvo occasioni eccezionali o pretestuose. Chiacchiere comunque scontate che non vale in genere la pena né di leggere né di commentare.

Quest’anno invece mi hanno colpito, per opposti motivi, un paio di cose uscite a breve distanza di tempo entrambe su La Stampa. La prima è un articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati pubblicato l’11 settembre scorso e intitolato la scuola al via: gli insegnanti sono la luce. Ne riporto alcuni passaggi:

« Le norme grigie che strutturano il tempo scolastico (calendari, riunioni, programmi, valutazioni, ecc.) favoriscono la sua rappresentazione come una istituzione condannata a una ripetizione senza sorpresa. Un peso al collo o una condanna nel vissuto di molti studenti. Una incombenza necessaria in quello di molti insegnanti. Il processo di istituzionalizzazione della Scuola tende infatti a consumare anche i migliori. È quella che ho definito altrove l’anima grigia dei dossier, il feticismo del numero, l’assillo della quantificazione. […] Questa riduzione del sapere a un sapere morto scoraggia l’entusiasmo dell’apprendimento e ribadisce la sua separazione dalla vita. A cosa serve apprendere, studiare, sapere se poi l’impatto con la vita ne rivelerebbe fatalmente l’inutilità? La formazione scolastica sarebbe allora una perdita di tempo, un ritardare inutilmente l’inizio dell’attività lavorativa, come sostengono anche noti imprenditori del nostro paese? Dovremmo sempre, oggi più che mai, contro discorsi simili, ricordare la centralità della scuola non tanto come luogo di accumulo di informazioni, ma come luogo insostituibile di formazione. L’esperienza della Scuola non è solo esperienza di una routine mortifera, ma anche della luce del sapere: il sapere non è un libro morto, ma un libro vivo, non è una passione triste ma una passione erotica. Ma questa luce deve essere testimoniata da chi insegna. […] L’esperienza della luce richiede sempre dedizione, cura, attenzione. È quella che molti hanno avuto la fortuna di incontrare nei propri maestri. Diversamente, la distrazione svia da ogni possibile cura. Ecco la testimonianza difficile a cui sono tenuti i nostri insegnanti. Dare prova di una concentrazione che non sia una forma ottusa del rigore, ma una cura. Essere concentrati sulla propria pratica è, del resto, la sola salvezza possibile per non cadere in una ripetizione scolastica del sapere che stroncherebbe anche gli spiriti più nobili. È la solitudine inevitabile che accompagna ogni insegnante: restare concentrati sul proprio lavoro, restare prossimi alla cosa, non lasciarsi distrarre dai rumori del mondo.»

Parole sante, specie queste ultime. Contro la diffusa burocratizzazione della vita scolastica e la minaccia tecnocratica incombente della sua trasformazione in puro addestramento pratico e professionale Recalcati ripropone (sulla scia del suo bel libro L’ora di lezione) una visione alta e disinteressata di scuola come luogo – lo chiama lui – di erotizzazione del sapere e della cultura. Erotizzare sapere e cultura significa per Recalcati non sostituire i contenuti delle discipline umanistiche e scientifiche con ‘educazioni’ spicciole né con più banali e brillanti argomenti à la page, bensì rendere desiderabili proprio quei contenuti spostando sempre più in là, con un metodo che definirei fondamentalmente socratico, il limite della conoscenza: suscitando cioè dubbi e interrogativi, stimolando la curiosità, promovendo la partecipazione emotiva e lo spirito critico. Il prof vero secondo Recalcati è (ha da essere) un portatore di luce. Un maestro. Uno che non si abbassa alla sottocultura di massa ma innalza i suoi studenti alla cultura autentica. Obiettivi ambiziosi ma fondamentali per salvaguardare e incrementare la qualità dell’insegnamento. Obiettivi che purtroppo la scuola reale e quella progettata (ed in fieri) dalle riforme ministeriali (ne ho scritto anche troppo) sembrano ignorare o addirittura contrastare.

La strada maestra indicata da Recalcati non è a mio avviso per niente affatto anacronistica né astratta, specie se pensiamo alla scuola liceale: se da decenni questa strada non viene più seguita questo accade da noi non per una inevitabile cambiamento imposto dai tempi ma per una precisa scelta politica e dirigenziale. Non è infatti soltanto la grigia burocratizzazione denunciata da Recalcati a depauperare la scuola e a deprimerne l’efficacia didattica ma sono anche e soprattutto, nella scuola ‘autonoma’, il trionfo, pilotato e caldeggiato dall’alto, dei progetti più balzani e peregrini sopra la programmazione disciplinare e l’invadenza sistematica di attività ludiche e promozionali in sostituzione (e a crescente discapito) della lezione ordinaria: proprio quella nella quale il prof dovrebbe illuminare gli allievi concentrandosi e concentrandoli sui tesori della sua materia. Invece la lezione ordinaria oramai viene additata con disprezzo dai soloni ministeriali come anticaglia sacrificabile a qualsiasi altra attività-paccottiglia-bigiotteria di quelle nominate sopra. Ma lasciamo stare…

Un altro scritto recente sulla scuola che, per contrasto, mi ha molto intrigato e spiazzato è stato un bel racconto di Monica Acito uscito un mese prima nell’inserto letterario dello stesso giornale (Tuttolibri/La Stampa del 12.08.23). Il racconto si intitola La buona educazione e la storia è narrata in prima persona da una immaginaria, giovane ma poco ‘motivata’ insegnante di scuola superiore, certa prof Macrì. Eccone qualche stralcio (e tenetevi forte…):

« Ritorno alla cattedra e ripren­do a sproloquiare su Dante, virtù e cono­scenza. Ormai non so più cosa sia manco la digni­tà, quando ti metti a fare questo mestiere fir­mi col sangue una clausola in cui rinunci a ogni tipo di rivendicazione di fierezza, intelligenza o altro; non so più nemmeno che cosa sia la vergogna, infatti riprendo a spiegare come se nulla fosse, tutto viene tamponato da una garza che è nascosta da qualche parte del mio corpo, mi passo un fazzoletto gigante sulla bocca umida dello stomaco, tutta la rabbia rimbalza in qualche parte di me che non conosco e poi riemerge di notte, mi risale sulla bocca sotto forma di fiotto acido oppure mi risale dal pube mentre sto facendo sesso, ma mi risale sotto forma di secchezza, blocco e siccità. […] Quando un docente riesce a gestire gli alunni, si dice che «sa tenere la classe». Io la classe non la so tenere, e quando io e Emilia Pinto, la docente di inglese, ci dia­mo il cambio, gli alunni si mettono tutti sull’attenti, sembrano soldatini di piombo, fiammiferi spenti che si mettono in piedi e la ossequiano. Con me, invece, fanno quello che voglio­no, perché io non so tenere la classe, e loro se ne accorgono: agli alunni non puoi na­scondere niente, ti entrano nel corridoio dei pensieri, edificano stanze nella tua mente e si ficcano nel letto pure mentre stai chiavando, ti fissano nella penombra men­tre lo stai prendendo in bocca, sono degli spiritelli cattivi a cui non posso celare nem­meno i miei pensieri più segreti, hanno gli occhi appuntiti e lucenti come quelli dei ro­ditori. Io non so più cosa fare con questi alunni, vedo le loro code che sgusciano ovunque, il sabato e la domenica non lavo­ro e rimango nel letto fino all’una, perché mi sento il canale di scolo dell’umanità, co­me se tutto il materiale di scarto del mondo si fosse calcificato sulla mia pelle e io fossi fatta di squame di nausea. Certi giorni mi chinerei sul cesso e mi metterei a vomitare ogni lettera del mio no­me e del mio cognome, mi metterei a vomi­tare i miei capelli, le mie ciglia, le pupille dei miei occhi liquefatti, tirerei lo sciacquo­ne e andrei a inquinare qualche oceano con quello che rimane di me. Io non ci voglio più entrare in classe, io non le voglio più sentire le mie colleghe che in sa­la docenti si organizzano per fare attività, la­vori di gruppo, cooperative learning, flipped classroom, proiezioni di video, uscite didatti­che, io non so insegnare, e sto facendo que­sto solo perché non so fare niente altro. […] Oggi Martina C. ha esagerato. Mentre spiegavo la latitudine e la longi­tudine nell’ora di geografia, per sbaglio ho confuso meridiani e paralleli perché l’ulti­ma per me è particolare: all’ultima ora, io in realtà non ci penso a cosa sto spiegando, perché non vedo l’ora di correre in macchi­na e fiondarmi nel mio monolocale, per ap­parare una bella piadina farcita di speck in offerta, mozzarella cruda, rucola in busta e maionese mischiata con la salsa barbecue, pure quella in offerta. «La Macrì non sa manco cosa sono i meri­diani e i paralleli, forse le manca la prima media»: Martina C. bisbiglia a Larisa, l’alunna nuova, e quando Martina C. bisbi­glia, sembra una piccola volpe. Larisa an­nuisce e Martina C. le dice, scandendo be­ne le parole «Lo tiene scritto in faccia che nemmeno stanotte ha scopato». Larisa ridacchia e mette un astuccio da­vanti al musetto, e Martina C. scandisce di nuovo bene le parole: «Se scopava, vedi co­me se li ricordava bene i meridiani e i paral­leli!», e Martina C. e Larisa fanno dei cerchi con le dita e dentro ci infilano dei pennarel­li, poi li tolgono e ce li infilano di nuovo, si mettono a stantuffare con le dita pensando che io non le veda.

Sconvolgente, no? E non certo (o non soltanto) per il linguaggio. Vorrei tanto che questa immaginaria prof.ssa Macrì non esistesse. Non fosse mai esistita se non nella testa della sua inventrice. Meglio: vorrei non essere mai stato – non essermi mai sentito – neanche un po’ come lei. Vorrei sentirmi solo ed unicamente come il prof di Recalcati. Ma mi trastullerei, da narciso, in un concetto del mio mestiere troppo alto per essere del tutto credibile. Mentirei con me stesso e con i lettori. Perché questa figura di prof, ahimè, come tutte le figure inventate dalla penna di uno scrittore degno di questo nome (e qui, secondo me, Monica Acito riesce ad esserlo), è più vera (= verosimile) di quelle reali. La sua prof è il contraltare (iper)realistico del prof ideale di Recalcati: è uno specchio crudo della condizione professionale e soprattutto sociale e psicologica dell’insegnante attuale. C’è un gioco rivelatore di specchi, appunto, in questo racconto: lo specchio torturante dello sguardo adolescente che trafigge l’amor proprio della prof inchiodandola a una immagine intollerabile di sé e quello della pagina scritta che riflette sul lettore, senza veli, il depresso e deprimente vissuto interiore dell’io narrante, la sua devastata autostima.

Il re è nudo. La prof Macrì, in senso fisico e metaforico, si sente e ci si mostra nuda. Ogni prof, d’altronde, quando entra in classe, è nudo. Non ha veli né armature né scudi. Deve mettersi in gioco per quello che è, non illudersi di cavarsela, oggi meno che mai, recitando bene una parte.

Se ubbidissi allo spirito di corpo e all’orgoglio di scuderia obietterei a Monica Acito le solite cose: che una prof scoppiata ed incapace come la Macrì non rappresenta quasi nessuno, che professionalmente la media degli insegnanti italiani è molto più preparata e dignitosa di lei ecc… ma anche se queste obiezioni d’ufficio avessero, come credo, un fondamento, sfido chiunque fra i miei colleghi a giurare di non essersi sentito mai, nemmeno una volta, in una condizione interiore simile a quella confessata dalla protagonista. Spergiurerebbe, perché purtroppo questo racconto coglie nel segno della micidiale asimmetria del rapporto docente-alunno. Una asimmetria che si è ingigantita, fino ad esplodere, negli ultimi decenni per il venir meno di ogni principio di autorità e per il concomitante precipitare della condizione professionale e della considerazione sociale dell’insegnante medio italiano. Un racconto così ci rappresenta in certa misura, tocca ammetterlo. È uno schiaffo salutare. Di quelli che solo la buona letteratura è capace di assestare. Perché solo l’onesto riconoscimento del peggio che ci abita e che ci circonda può permetterci di riscattarlo. Di camminare, nel nostro caso, nella direzione auspicabile, nobile e ideale ma tutt’altro che utopica, indicata da Recalcati.

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Alessandro Barbero fa rivivere il medioevo in Valle d'Aosta - Aostasera
Coaching: Socrate il primo Coach che tentò un omicidio

Non so se Alessandro Barbero sia il migliore storico italiano in assoluto. Sicuramente ce ne sono molti altri altrettanto bravi in circolazione. E tuttavia lo storico piemontese è diventato da tempo e strameritatamente un beniamino del pubblico. Cura e conduce varie trasmissioni e rubriche della Rai, è ospite ed esperto in vari programmi televisivi, spopola sul web in conferenze e video con centinaia di migliaia di visualizzazioni. Un fenomeno culturale e mediatico che suscita qualche (e non banale) riflessione.

Barbero ha successo non solo perché, ovviamente, è competente nella sua materia ma soprattutto perché è comunicativo. Sa cioè tradurre in maniera appetibile, piacevole e interessante per un pubblico medio la sua ampia preparazione specialistica. In una parola Barbero sa insegnare al meglio quello che sa. È l’antica (e per molti trita e persino superata, in realtà sempre valida) formula magica dell’insegnamento.

Barbero espone interpretando quello che dice. E quando parlo di interpretazione non intendo solo che egli rielabora e spiega i fatti che narra collegandoli nei giusti rapporti di causa ed effetto, contestualizzandoli e articolandoli a dovere, ma anche che li sente e li rivive in maniera personale, e li trasmette con un pathos ed una partecipazione inconfondibili.

Barbero tuttavia – va sottolineato – non è propriamente né un attore, né un tribuno, né un intrattenitore di professione. Piuttosto possiede naturalmente, insieme alla competenza dello studioso, un po’ di tutte le abilità retoriche che sono proprie di questi mestieri.

Chi conosce l’eloquenza antica e i suoi ferri del mestiere riconosce in lui facilmente la speciale congenialità con almeno un paio di arnesi tipici di quell’arte: il delectare e l’agere. Vale a dire: la capacità di coinvolgere l’ascoltatore con una affabulazione brillante e colorita (delectatio), spesso attualizzante e non di rado divertente, di fatti e personaggi remoti e di per sé poco adatti a suscitare curiosità ed empatia; e poi la capacità di valorizzare quella narrazione con una gestualità (actio) energica e inimitabile. La convergenza di queste due qualità produce, come per reazione chimica spontanea, un notevole effetto di coinvolgimento: è quello che gli antichi chiamavano il movere, cioè la sollecitazione della componente emotiva dell’ascoltatore. Chi lo ascolta non può rimanere indifferente. Ma non perché sia adescato da un abile incantatore di serpenti che persegua a freddo quell’incantesimo con tutti i trucchi e gli strumenti del suo consumato mestiere. No. In realtà Barbero diverte e appassiona e coinvolge semplicemente perché egli per primo è divertito, appassionato e coinvolto dalle cose che narra.

Qui sta la differenza tra Barbero e un attore, un avvocato, un pubblicitario o un intrattenitore di professione: il suo è un talento oratorio naturale, spontaneo ed estemporaneo che si innesta e rampolla sopra la sua preparazione di studioso. Egli coinvolge e incatena il pubblico per contagio e per osmosi. Quasi preterintenzionalmente. In questo senso è, nel suo campo, un maestro: non perché sia – ripeto – uno storico necessariamente più bravo degli altri, ma perché sa meglio di altri – socraticamente – trasferire negli ascoltatori/allievi il dèmone che lo possiede. Un dèmone che ci provoca e ci interroga, non ci lascia inerti né apatici.

Il suo segreto è tutto qui.

Magari farebbe bene ai pedagoghi del ministero dell’istruzione riflettere sul fenomeno.

Forse si accorgerebbero che esso riempie un vuoto e soddisfa una esigenza: quella, che a torto essi (pedagoghi) ritengono irrimediabilmente tramontata e inattuale, di ascoltare un maestro. L’esigenza di assistere – come recita il titolo del bel libro di Recalcati – a un’ora autorevole di lezione.

Invece no. Loro (i pedagoghi di stato) vanno blaterando che oggi i ragazzi possono imparare da soli, raccogliendo e selezionando dal web le notizie che servono per inquadrare un argomento. In questa operazione il prof dovrebbe secondo costoro limitarsi a osservare e a guidare la loro ricerca dall’esterno, senza interferire troppo. Per questi profeti del self teaching tecnologico il prof e la sua bella lezione ex cathedra sono ormai roba da museo, e le capacità retoriche dell’insegnante ferri vecchi e arrugginiti da buttare. Salvo poi, ogni tanto, smentirsi e contraddirsi clamorosamente per reclamare, di fronte alle performance dantesche di un Benigni, altrettali capacità incantatorie dagli insegnanti delle nostre scuole.

Ma Barbero non è un attore né un incantatore. È semplicemente un professore esemplare (non ideale, per carità!). Uno che nel suo compito non può essere sostituito né surrogato da ricerche di gruppo sul web. Uno di cui i nostri studenti, specie gli adolescenti delle superiori alla ricerca spasmodica di guide culturali autorevoli e di riferimenti umani credibili, avrebbero disperato bisogno. Il bisogno di ascoltare maestri. Barbero – tanto per fare un esempio – ha tenuto incollati a una sua ricostruzione (dettagliatissima) sul sequestro Moro milioni di spettatori (dal vivo prima e poi su Youtube) per quasi due ore di fila. Una lunghissima lezione, una di quelle che in passato si sarebbero definite frontali, con un aggettivo incenerito oggi dalla scomunica del pedagogismo anglosassone alla moda. La cosa si commenta da sé. E mi suggerisce una modesta proposta da sottoporre ai signori che dirigono la scuola italiana.

In questi tempi di bene/male-detta DAD perché non offrire ai nostri studenti delle superiori, disorientati e smarriti nel caos educativo prodotto dalla pandemia, la chance di ascoltare liberamente online (oltre che il vero Alessandro Barbero) tutti gli altri “Alessandro Barbero” del proprio istituto (e non solo) che potrebbero interessarli e aiutarli di più? Non ci crederete, ma di prof come lui ce ne sono abbastanza nella nostra scuola superiore. Non la maggioranza, certo, anzi forse una contenuta minoranza. Ma sono più numerosi di quanto si immagini.

I prof che lo desiderano potrebbero insomma registrare le loro lezioni frontali che ritengono più riuscite e più utili e metterle a disposizione di tutti gli studenti del proprio istituto (e non solo). Così tutti i ragazzi avrebbero opportunità di confrontare e integrare le lezioni che seguono (e devono continuare a seguire) in classe con quelle di altri prof. Si sfumerebbero così – senza abbatterli – i confini rigidi tra le classi: e tutti gli alunni potrebbero virtualmente imparare da tutti i prof e tutti i prof insegnare virtualmente a tutti gli alunni. Il tutto a costo quasi zero. E con la possibilità anche di valorizzare e incentivare i prof migliori per quello che valgono didatticamente, non tanto per i servizi logistici e burocratici aggiuntivi che sono disposti o condannati a sobbarcarsi.

Per capirci: il prof più visualizzato e seguito riceverà un bonus premiale. Non solo quelli (come è successo finora) che si attivano per l’open day, per le gite scolastiche e per l’alternanza scuola-lavoro, ma anche e soprattutto quelli più bravi e più apprezzati dagli studenti. Semplice no? (quantomeno a dirsi…)

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Quello di Massimo Recalcati (L’ora di lezione, Einaudi 2014) è il primo libro di uno psicoanalista sulla scuola che leggo con stupefacente, totale e (un po’) malinconica condivisione. Perché Recalcati condisce sì esperienze sue personali e ‘storiche’ di studente prima e di insegnante poi in rigorosa (a tratti un po’indigesta) salsa lacaniana, ma il piatto che ci offre ha il sapore intenso di una realtà vissuta e ripensata autenticamente, non quello di una pietanza precotta secondo le supponenti ricette psicopedagogiche di un Galimberti o di un Andreoli. Dice R. (sintetizzo qui molto sommariamente) che alla vecchia scuola autoritaria ed edipica pre-sessantottina è subentrata da decenni la scuola edonistica e narcisistica della società di massa. Che l’atteggiamento comprensibilmente oppositivo e ‘omicida’ dei figli verso l’autoritarismo di padri e insegnanti si è rovinosamente rovesciato in una diseducativa e corruttrice alleanza fra genitori e figli contro i docenti. Che questi ultimi sono ormai relegati, senza più munizioni né armi, in una trincea bombardata e vilipesa da tutti e perciò praticamente, per effetto di questo discredito e di questo isolamento totale, impossibilitati a educare chicchessia. Che l’unica via d’uscita a questa agonia della scuola come agenzia educativa non può che essere la riscoperta e la rivalutazione di un insegnamento socratico, ‘filo-sofico’ nel senso strettamente etimologico del termine. Vale a dire che l’insegnante, per poter riacquisire dignità e autorevolezza, deve puntare su quella che R. chiama l’erotizzazione del sapere: non tanto – cioè – la trasmissione di nozioni morte e di risposte preconfezionate (da verificarsi con test e quiz stile Invalsi), quanto la stimolazione continua e spiazzante di dubbi e di domande, l’accensione del desiderio del sapere (il philosophein appunto dei Greci antichi) che sposta sempre più in là il confine della conoscenza. E se l’insegnante vuole davvero, dice R., trasfondere in altri questo desiderio bisogna soprattutto che lo avverta profondamente in sé: che sia egli stesso innamorato del sapere, cioè – etimologicamente – philosophos. Non burocrate, non ripetitore o addestratore; tantomeno – udite udite, quale musica per le mie orecchie! – neppure psicologo o confidente degli allievi, perché quest’ultimo è l’equivoco più diffuso e fuorviante della scuola narcisistica di oggi.

Insomma: grazie Recalcati. Grazie di esserti fatto mio (ancora etimologicamente) profeta; di aver ridetto con maggiore dottrina della mia e maggiore speranza di essere ascoltato cose che da anni vado scrivendo in questo blog (e altrove) praticamente tra l’indifferenza e la sordità di quasi tutti.

Ma attenzione: questa concezione alta dell’insegnamento (l’unica che dovrebbe guidare le scelte di qualsiasi governo e operatore della nostra scuola) ha i suoi lati pericolosamente utopistici.

Per esempio: per innamorare gli studenti della Commedia di Dante come sa fare Benigni bisognerebbe che gli insegnanti fossero affascinanti performer, geni del palcoscenico. Non semplicemente bravi insegnanti appassionati di letteratura. D’altra parte il bravo insegnante dovrà pure far sudare e annoiare un po’ i suoi allievi sull’italiano del trecento prima di fargli gustare il canto di Paolo e Francesca.

E poi a chi interessa, tra quelli che comandano, che si spendano energie e soldi su questo fronte? Non è meglio, non è più direttamente funzionale al ‘sistema’ (come si diceva una volta), addestrare e intrattenere con un po’ di internet, di inglese e di ideologia imprenditoriale?

E infine: siamo sicuri che un Socrate oggi – ammesso che ne esistano ancora in giro – riuscirebbe a sedurre intellettualmente la globalità degli studenti della scuola di massa? O ci riuscirebbe solo con pochi? Coi pochi predisposti a lasciarsi sedurre – esattamente come duemilacinquecento anni fa?

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