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Il libro di Ricolfi e Mastrocola, un danno per il lettore e per la verità

Più di un quarto di secolo fa – era il 1996 e io ero (ancora) un prof abbastanza giovane e speranzoso – davanti a una scuola della mia zona stavo raccogliendo firme contro la legge, da poco varata dal primo governo Berlusconi, che aboliva gli esami di riparazione. Quel provvedimento mi pareva scandaloso perché cancellava di colpo nella valutazione dei ragazzi le differenze tra promossi e rimandati, tra sufficienze e insufficienze, tra merito e demerito: legalizzava pertanto dei falsi in atto pubblico. Ero preso in quei giorni dal fuoco sacro della protesta e andavo cercando a destra e a manca proseliti per la mia nobile causa, quando… quando un collega più anziano che conoscevo appena mi si avvicinò, lesse le motivazioni della raccolta di firme, firmò, poi aggiunse laconico, con un’espressione facciale indefinibile, tra l’ironico e il compassionevole, ma con un soffio di rabbia triste e malamente trattenuta tra le labbra: «Caro collega, mi disse, bisogna rassegnarsi: siamo un parcheggio!» Stop. Non aggiunse altro e se ne andò.

Leggendo il recente saggio di Paola Mastrocola (scritto col marito Luca Ricolfi), Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La Nave di Teseo, 2021), mi è balzata in mente più volte questa scena. Non perché io non condivida molto (come sempre) di questa ennesima, lucida e accorata denuncia della collega e scrittrice intorno ai mali vecchi e nuovi della nostra povera scuola. Anzi, nutro verso l’autrice (e in questo caso la estendo anche al consorte-coautore) particolare gratitudine. Perché senza la sua testimonianza nessuno si accorgerebbe di noi. Di noi, intendo, i pochissimi irriducibili rimasti a reclamare, o meglio a ‘desiderare’(etimologicamente) una scuola superiore ancora seria e culturalmente qualificata. La Mastrocola ha saputo sfruttare a dovere la sua fama letteraria per farla sentire a molti, la nostra voce. Non solo la sua. Purtroppo però, come succede a certi eroi della tragedia greca (penso ad Antigone in particolare), quando si testimonia al mondo il più sacrosanto dei valori capita di essere vilipesi, infangati e calpestati, specie se ci si scontra con un potere che gode di un consenso molto esteso. Nel nostro caso capita immancabilmente di essere screditati da quel potere come protervi, ottusi e frustrati reazionari. Come fossimo briganti sanfedisti che tentano di disturbare i manovratori della gioiosa macchina da guerra dell’istruzione moderna per sabotarne le magnifiche realizzazioni. Non si concede alle nostre prese di posizione neanche il beneficio della dignità morale, né della autenticità testimoniale. Insomma, siamo messi persino peggio di quei soldati o quegli ufficiali valorosi di cui narrano Cesare o Sallustio o Livio: quelli che di fronte alla sconfitta ormai compiuta del proprio esercito si gettano eroicamente in medios hostes, nel folto dello schieramento avversario, cercandovi una morte certa ma gloriosa. Perché almeno a quei combattenti antichi si riconosceva unanimemente il rispetto dei loro ideali o l’onore delle armi…

I nostri avversari sono un esercito imponente. Un esercito che monta la guardia da un trentennio ormai attorno al cantiere di demolizione (sempre aperto) della scuola italiana. Un esercito armato fino ai denti, che se la ride delle azioni di disturbo di una pattuglia striminzita e mal equipaggiata come la nostra. L’invincibile armata nemica schiera infatti una formidabile artiglieria ideologica e una variegata ma compatta compagine di forze alleate: pedagoghi di stato e funzionari del ministero, dirigenti scolastici, partiti politici (tutti, praticamente…), poteri economici e mediatici forti, gran parte delle famiglie degli studenti e infine, ahinoi, persino una bella fetta dei nostri colleghi insegnanti… Contro la Grande Coalizione Pedagogica aziendal/ progressista non c’è per noi, sic stantibus rebus, speranza di vittoria.

Retorica militare e metafore bellicose a parte: questa volta nel raccontare le sue esperienze e nell’esternare le sue considerazioni controcorrente Paola Mastrocola si è fatta aiutare, come dicevo, dal marito Luca Ricolfi, che è sociologo e docente universitario e che porta a conforto delle affermazioni di lei statistiche e inchieste fitte di dati e di tabelle. È stata una buona idea: così i nostri avversari (ho pensato subito, e lo stesso avranno pensato i due autori nel progettare il libro) la smetteranno una buona volta di dire che i nostalgici della scuola di qualità si aggrappano solo a ideali astratti e superati, a esperienze individuali e a valutazioni soggettive, senza il riscontro positivo delle moderne scienze umane e sociali.

In realtà i nostri avversari non si fermano di fronte a nulla. Non si fermano perché la loro guerra è (o vuole apparire) soprattutto una guerra di religione. E infatti eccoli sparare subito a zero, dalle postazioni di varie riviste online “progressiste”, non solo contro la Mastrocola ma anche – ovviamente – contro il suo consorte. Riporto solo un paio di link tra molti altri che stroncano a colpi di anatema il libro, accusandolo di lesa maestà ideologica, senza mai confrontarsi concretamente con i dati di fatto che esso riporta: https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/come-non-conoscere-o-non-capire-nulla-della-scuola-democratica-ovvero-il-danno-che-provocano-le-confuse-opinioni-di-luca-ricolfi-e-paola-mastrocola/ https://www.ilbenecomune.it/2021/11/29/la-teoria-del-danno-scolastico-ecco-perche-non-regge-la-tesi-di-ricolfi-e-mastrocola/

Taccio del tutto sui pochissimi recensori che invece lo elogiano, perché si tratta quasi sempre di finti simpatizzanti della nostra causa, cioè di astuti pennivendoli interessati soltanto a strumentalizzarla politicamente: spudorata strumentalizzazione, perché la parte politica che costoro rappresentano è di fatto, e nemmeno tanto segretamente, alleata da anni della Grande Coalizione… D’altra parte solo se si è ingenui o in malafede si può credere che lo sfascio della scuola dell’ultimo trentennio sia da addebitare esclusivamente alla “sinistra progressista” (uso a ragion veduta le virgolette…). La quale “sinistra” porta certamente una buona metà, forse anche di più, delle responsabilità del degrado della nostra istruzione perché ha coperto e giustificato ideologicamente (spalmandola con una vernice di efficientismo e intridendola di una melassa catto-socialista) la sua metamorfosi pseudo-aziendalistica e mercantilistica. Ma questa metamorfosi è, nella sua essenza, intimamente di destra, quantomeno di quella destra neo-liberale e ultraliberista che negli ultimi venticinque anni ha (s)governato anch’essa molto a lungo e soprattutto ha egemonizzato i media e l’opinione pubblica, contaminando e seducendo ampi settori della sinistra.

Per parte mia assolverò presto il mio debito di riconoscenza verso questa ennesima testimonianza di Paola Mastrocola dedicandole in altra sede una recensione più seria, oggettiva e articolata. Meno ondivaga, sentimentale e agrodolce, insomma, di questo post.

Il fatto è che parlare di scuola, difendere le mie (le nostre) convinzioni sulla scuola, mi appassiona ancora, sì, ma da un po’ mi immalinconisce anche abbastanza. Perché vedo che le nostre file, già esigue, si assottigliano ahimè sempre di più. I pochissimi resistenti invecchiano (sia la Mastrocola che il sottoscritto e diversi altri sono ormai in pensione). E i non molti nostri simpatizzanti ancora in attività per lo più tacciono di fronte ai megafoni della Grande Coalizione: un po’ per convenienza, forse, e un po’ forsanche perché sopraffatti precocemente dal mio stesso malinconico scetticismo. Così faceva, del resto, di fronte ai proclami e ai gesti eroici della sorella Antigone anche Ismene: consentiva ma taceva. Così fece anche quel mio collega di cui parlo all’inizio: firmò la petizione, poi, triste e silenzioso, salutò e girò i tacchi. Non senza aver sibilato prima tra i denti la sua tremenda sentenza: siamo un parcheggio!

PS del 02.02.2022: l’articolo-recensione che annunciavo sopra è uscito oggi nella rivista online Limina: https://www.liminarivista.it/comma-22/chi-ha-prodotto-il-danno-scolastico-riflessioni-sulla-crisi-della-nostra-scuola/

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La nostalgia del passato non è sempre un sentimento sterile. Può suggerire talora lucide e acute diagnosi del presente e credibili proiezioni future. È il caso dei pamphlet scolastici della collega e scrittrice Paola Mastrocola. Non nego di condividere con lei – in tema di insegnamento e di scuola – una speciale e cordiale consonanza di vedute che potrebbe forse influenzare l’obiettività del mio giudizio nei confronti di quello che di volta in volta, ormai da anni, scrive. Ma credo che a troppi lettori (e colleghi) ‘modernisti’ (che troppo superficialmente la liquidano come superata passatista) sfuggano di lei alcuni precisi meriti: primo fra tutti quello di guardare coraggiosamente in faccia alla realtà, senza filtri ideologici. E uno sguardo onesto e oggettivo ci rivela che capisaldi educativi e valori culturali della nostra scuola liceale sono ormai stati irrimediabilmente travolti. Ma non sono stati altresì – e questo è il punto dolente – degnamente sostituiti. Né forse più lo saranno. Perché la crisi dei nostri sistemi educativi (in Italia soprattutto, ma non solo) ha molte cause, quasi tutte esogene e difficilmente rimuovibili. Sì, perché insegnanti che non sanno insegnare, o dirigenti che non sanno dirigere ci sono sempre stati. Non è questo il problema più importante. Al contrario, non c’è sempre stato internet, né la televisione, né la profluvie diabolica di strumenti che ci inchiodano perennemente alla connessione con un mondo virtuale, né la dilagante cultura tecnocratica, produttivistica ed “edo-consumistica” che è la nemica numero uno di una educazione sana ed equilibrata dei giovani. Non ha sempre dominato l’idea che il bene dei ragazzi consista comunque nell’assecondare immediatamente i loro desideri mentre scientificamente si pilotano questi stessi desideri verso (guarda caso) tutto ciò che i mercati vogliono imporre. Già il vecchio Epicuro, maestro di edonismo, sapeva che piaceri non naturali né necessari – quali quelli che il nostro sistema induce artificialmente – sono deleteri. E che la saggezza consiste nel selezionarli, riducendosi a quelli più sobri e necessari. Convertendosi, si direbbe oggi, a una decrescita felice. Ad un edonismo controllato.

Una passione positiva, alternativa, utile a combattere questa deriva alienante sarebbe – secondo la Mastrocola – lo studio. Sì, il vecchio, silenzioso, riflessivo, appartato intimo ascolto della voce dei grandi personaggi che ci parlano dai libri. Gli studia humanitatis. La cultura umanistica. Quella che ci sequestra dal turbine dell’attualità e della quotidianità per restituirci poi ad essa più consapevoli e capaci di intenderla ed affrontarla. Soprattutto di questa nostalgia per lo studium (etimologicamente: passione e applicazione nel contempo) la Mastrocola parla nel suo ultimo pamphlet. E lo intitola, significativamente, La passione ribelle, perché lo studio, quello vero, è una delle poche armi critiche e autenticamente anticonformiste che possono permetterci di contrastare la servile omologazione dei cervelli. Condivido praticamente tutto di questo libro che è di fatto una dolente laudatio funebris di un illustre estinto (il nostro liceo) e al tempo stesso un appassionato invito a raccoglierne in qualche modo attivamente e fruttuosamente la migliore eredità. Sì, perché lo studio – fulcro della vecchia scuola liceale – è ormai scomparso dalla scuola come dalla vita attuali. Se per studio almeno si intende l’abitudine lenta, gratuita, quasi ascetica di cui parlavo sopra. Non c’è spazio oggi per la lentezza e l’ascesi. Bisogna fare, saper fare rapidamente senza pensare troppo: produrre, risolvere problemi, adattarsi rapidamente a tutto ciò che rapidissimamente muta. Tanto che le ultime frontiere della didattica paiono essere quella della sala multimediale circolare con al centro ordigni elettronici. Non più il docente. Il quale si dovrebbe per parte sua limitare a controllare e coordinare il lavoro di raccolta di dati e notizie compiuto dagli studenti su quegli ordigni e convogliarlo nella risultante di conclusioni plausibili e condivisibili. Un insegnante assemblatore e coordinatore di dati ed opinioni, dunque. E una auto-didassi completamente affidata ai computer. No, non ci siamo. Tutto ciò comporterebbe una perdita e un impoverimento letale nella formazione degli individui. Non perché l’elettronica non debba essere usata, ci mancherebbe: per il reperimento di dati e di immagini essa è – se ben usata – uno strumento tecnicamente formidabile. Ma perché lo studio è ben altra cosa, quanto meno in campo umanistico: lettura ragionata in classe di testi di grandi autori, riflessione guidata su di essi da parte di un educatore esperto e appassionato, che ci aiuti a capirli e ad amarli e che ci stimoli a confrontarci tra noi su di loro. E poi – complementarmente – ripresa personale, ripensamento silenzioso, “ritirato” degli stessi a casa. Questa è la paideia (secondo la Mastrocola e secondo me) che bisognerebbe in buona misura salvaguardare e conservare, pur con tutti gli aggiornamenti possibili di e-reader, tablet e compagnia bella. Per evitare il rischio che la macchina con i suoi automatismi acritici ci sopraffaccia, rendendoci sue insignificanti e decerebrate appendici. Perché la velocità è superficialità e dispersione, mentre la lettura meditata è acquisizione di abitudine alla profondità critica. Ma forse è proprio questa lenta discesa nelle profondità che non serve più. O, peggio ancora, che non si vuole più che avvenga.

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Leggo nell’ultimo Domenicale del Sole24ore una nota di diario di Paola Mastrocola che con molte ragioni stigmatizza la tendenza sempre più diffusa di scrittori e poeti a farsi performer, teatranti, promotori, lettori e interpreti di se stessi nella veste di attori e di star mediatiche. Questo avviene – aggiungerei – non solo per i pochi autori in vista sostenuti dalle grandi case editrici, ma anche – anzi direi ancora di più, sebbene in scala adeguatamente ridotta o circoscritta – per la pletora di noi piccoli, sconosciuti e semisconosciuti, ansiosi di emergere dall’anonimato. Ci sono molti di questi miei simili che si dibattono fra mille presentazioni, eventi materiali e virtuali, reading in librerie, locali pubblici, ristoranti, scuole, luoghi turistici ecc. ecc.

Niente di nuovo sotto il sole, in realtà.

Nell’antichità classica, specie nell’età proto-imperiale romana, andavano di moda le recitationes: poeti e poetastri si esibivano recitando i propri versi nei teatri e negli auditoria ed obbligando moralmente amici, conoscenti, clientes a intervenire, numerosi e spesso annoiati, per ascoltarli. Questo obbligo era difficilmente eludibile per gli invitati, soprattutto se anch’essi appartenevano al mondo delle lettere. E quindi si aspettavano prima o poi di essere a loro volta ricambiati del favore della presenza altrui nel momento in cui avessero essi stessi inscenato una propria recitatio.

Così si instaurava un circolo vizioso di reciproco ossequio che teneva in vita questo tipo (spesso moralmente, oltre che artisticamente, deleterio) di manifestazioni. Così si favoriva in quel genere di letteratura – per la consapevolezza del rischio sempre incombente della noia e della disattenzione di un pubblico scarsamente motivato – la tendenza ad uno stile enfatico, ‘urlato’, oppure ultra-artificioso; e il ricorso a toni e a temi di facile effetto: sangue, violenza, pathos elevati alla massima potenza…

Letteratura (o pseudo- letteratura) che si trasformava continuamente in spettacolo.

Nulla di sostanzialmente diverso, ripeto, da quello che accade oggi.

Ma oggigiorno la smania esibizionistica di letterati o sedicenti tali è, sicuramente, centuplicata rispetto ad allora. Direi ossessiva, parossistica.

Non potrebbe essere diversamente. Perché emergere tra migliaia e migliaia di concorrenti (quanti sono oggi in Italia gli aspiranti scrittori, sulla carta e nel web) davanti allo sterminato pubblico dei media, non è la stessa cosa che rivaleggiare (come avveniva nell’antichità) con pochi altri letterati esibendosi davanti a qualche decina di amici e conoscenti.

Tanto più che il pubblico di oggi (benché potenzialmente enorme e teoricamente scolarizzato) è in realtà molto più refrattario alla letteratura, perché attirato da ben altre forme, più popolari e immediate, di intrattenimento.

E siccome l’oralità e l’immagine sono ormai da decenni tornate a farla da padrone rispetto alla faticosa e antiquata pratica della lettura, ecco che gli scrittori debbono farsi conferenzieri, intrattenitori, guitti, istrioni…

Un poco impostori, diciamolo pure, come diceva due secoli fa, di molti suoi colleghi, il vecchio Leopardi.

Il quale sosteneva, due secoli fa, che possedere una buona dose d’impostura riesce sempre, almeno nell’immediato, ad avvantaggiarti su chi ne è privo, per quanto ricco sia di talento.

Difficile – oggi più che mai – dargli torto.

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