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Archive for novembre 2022

Si sa che parole singolari astratte assumono in certi casi, al plurale, un significato diverso: fortuna/fortune; bene/beni; amore/amori, tanto per fare qualche esempio. Il plurale è sempre più concreto e pragmatico, talvolta meno nobile ed elevato del singolare. La stessa cosa accade per educazione/educazioni. Quando è declinato al plurale questo termine sottintende sempre aggettivi che lo specificano e lo circoscrivono subordinandolo a scopi meno generali e meno alti, direi, del singolare senza aggettivi. C’è dunque l’educazione e ci sono varie educazioni, ciascuna mirata a istruire o a catechizzare gli educandi a certe idee, comportamenti o abilità in uno specifico ambito.

Sentivo stamane in radio un economista che reclamava l’urgente introduzione di una educazione finanziaria nella nostra scuola. Non passa giorno che qualcuno non esiga a gran voce diritto di cittadinanza nella nostra istruzione per una qualche educazione con aggettivo al seguito: musicale, cinematografica, teatrale, stradale, sanitaria, ambientale, alimentare, sessuale, digitale, e molte altre ancora.

Intanto il ministero ha già recepito e imposto (ma temo sia solo l’inizio…) almeno due di queste educazioni: quella civica, che esisteva già prima, ma era una semplice e (ingiustamente) trascurata appendice dell’insegnamento disciplinare della storia, e quella aziendalistica, camuffata dietro le sigle dell’Alternanza Scuola-Lavoro (ASL) e dei Percorsi Trasversali per le Competenze e l’Orientamento (PTCO).

Trasversale è nel nostro caso la parola magica. La chiave di volta della rivoluzione didattica che si vuole attuare imponendo da un anno all’altro queste educazioni. Sia la nuova Educazione civica che l’Alternanza, infatti, sono concepiti dal ministero non come discipline da aggiungere alle tradizionali, ma come percorsi (altra parola magica) che intersecano (attraversano> infilzano > trafiggono) tutte le varie discipline. Tutte le discipline devono insomma concorrere, subordinandovisi, alla educazione civica e a quella aziendalistica, ciascuna pagando il pegno di un bel gruzzolo di ore sottratte alla normale attività programmata e inventandosi attinenze fantasiose e improbabili con le finalità superiori di ciascuna educazione. Il sottofondo ideologico comune rimane, con tutta evidenza, la interdisciplinarietà. Un totem che circola nella pedagogia ministeriale da oltre sessant’anni ma che continua ad essere spacciato nella scuola reale come il non plus ultra della modernità, benché venga attuato nelle nostre aule in forme spesso degradate, fuorvianti e caricaturali.

Una interdisciplinarità così intesa si sposa in effetti a meraviglia con la proliferante pluralità delle educazioni. Ne diventa il lievito potente, fecondante. Capace di pompare potenzialmente l’importanza e la misura oraria delle nuove educazioni fino a coprire tutto il campo dell’attività didattica, o quasi.

In soldoni: se la scuola accoglierà una ad una nel suo grembo (ma come potrà non farlo se vuole adeguarsi alle esigenze di una istruzione utile, pratica ed attuale?) tutte le educazioni che reclamano di essere adottate, il tempo per insegnare le discipline tradizionali, prima o poi, non esisterà più.

Inutile negarlo: se questo accadrà, si avvererà una vera rivoluzione. La scuola che uscirà da questo totale rivolgimento sarà completamente altra rispetto a quella che noi conosciamo e che molti di noi anzianotti hanno frequentato: in questa nuova scuola le conoscenze disciplinari saranno disfatte, diluite, smembrate, sfrittellate, sfarinate e infine travasate dentro i contenitori delle educazioni. Saranno al servizio di un sistema di insegnamento tutto rivolto all’utilità immediata. Sarà una scuola delle istruzioni per l’uso, per capirci. Perché le educazioni hanno più o meno tutte nel mirino lo sviluppo delle famigerate e mai ben identificate competenze.

Beninteso: se davvero tutti oggi vogliono (politici, famiglie, società) una scuola così, se si ritiene che la scuola delle discipline non serva più a nessuno, se si pensa che Leopardi e Hegel e Machiavelli e le matematiche e la fisica classiche ecc. debbano finire nella spazzatura o porsi al massimo (e non si sa bene come) al servizio delle varie educazioni (stradale o alimentare ecc.) ebbene si metta allora mano al bulldozer e si proceda a demolire dalle fondamenta la vecchia scuola liceale. Si faccia con coraggio e subito piazza pulita delle materie tradizionali.

Sia chiaro: personalmente ritengo questo progetto di ‘scuola del prêt à porter’ un vero delitto di cui ci si dovrà presto pentire.

E tuttavia preferirei vederlo consumato, questo delitto, senza esitazioni e fino in fondo, con una riforma drastica e cruenta, piuttosto che assistere alla prolungata agonia della scuola delle discipline.

Per effetto di queste riforme striscianti i licei in particolare (e non per caso) sono infatti da anni impantanati in un drammatico guado. Non sono più carne e non sono ancora pesce. Si trascinano in questa lenta e travagliata metamorfosi, costretti a reggere il peso doppio del loro impianto tradizionale e delle insopportabili sovrastrutture ‘moderne’ imposte da un anno all’altro dalle riforme ministeriali o inventate dalla fantasiosa inventiva degli istituti autonomi.

Nei licei infatti si insegnano ancora, ormai più male che bene, le vecchie discipline. Ma a loro danno reclamano ormai un sempre maggiore spazio, in nome dell’attualità e della ‘progettualità’ e sotto molteplici e variopinte etichette, proprio le varie educazioni. Una presenza sempre più invadente, soffocante. Una vera e propria metastasi.

Il risultato, al momento, è un ircocervo, un organismo ibrido ed elefantiaco. Qualcosa, ripeto, che non è più e non è ancora. Un essere sofferente che non riesce, per la sua stessa mole mostruosa e iper-obesa, a muoversi e ad operare.

La conseguenza didattica è, etimologicamente, tremenda: incalzati nell’immediato dalle verifiche tradizionali e preoccupati a lungo termine dall’esame di stato, gli studenti liceali di oggi (anche i più seri e volenterosi) non riescono più ad assimilare decentemente i contenuti delle vecchie discipline, costretti come sono a occuparsene in tempi sempre più stretti e in modo vieppiù frettoloso e superficiale. Il tempo della lezione e del lavoro domestico infatti è sempre più dominato dalle esigenze e dalle incombenze della progettualità e delle nuove educazioni. Se a questo aggiungiamo il tantissimo tempo che i ragazzi di oggi dedicano, fuori dalle aule, a molteplici attività organizzate (sportive, ricreative ecc) e soprattutto quello che sperperano sugli smartphone e sui social, allora la frittata strapazzata (dell’apprendimento disciplinare) è fatta.

Signori della Minerva, abbiate pietà! Aiutate il vecchio liceo a morire, al più presto, con tutte le sue decrepite e fragili discipline. Non fatelo soffrire oltre. Spazio, subito, alle giovani educazioni…

(Però uno dubbio mi rimane: quando la matematica e la storia saranno decedute, come si farà a spiegare matematicamente, nelle ore di educazione civica, i sistemi elettorali? E come si spiegherà storicamente la storia della rivoluzione industriale nelle ore dell’alternanza scuola-lavoro? Giro queste stupide domande ai lettori…)

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Sabato 19 Novembre alle 10,30 su Universal Web Radio andrà in onda una mia intervista a proposito del mio saggio autobiografico THE DARK SIDE OF THE SCHOOL: https://www.universalwebradio.it/

L’intervista si può ora ascoltare in podcast: http://79.62.207.131/podcast/UNIVERSAL%20WEB%20RADIO/NULLADIE/INTERVISTA%20PAOLO%20MAZZOCCHINI.mp3

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«[Sulla questione di come fa il mondo ad andare avanti] viene chiamato a parlare un conferenziere che va in giro a far conferenze su tutto, sempre facendo riferimento alla sua infanzia e ai suoi ricordi. Costui in meno di un’ora risolve il problema, risponde alle obiezioni del tipografo, della bambina e dell’inventore, e conclude la conferenza. Il pubblico applaude contentissimo di sentire che là fuori c’è un mondo così facile da spiegare che uno se la può cavare in mezz’ora. Poi tutti, appena escono dalla sala e si ritrovano in strada, dimenticano immediatamente quello che hanno sentito, il conferenziere dimentica quello che ha detto, e l’indomani nessuno ricorda neanche più il titolo della conferenza. Nel piccolo paese tutto continua ad andare avanti come prima, a parte il fatto che ci sono sempre più parole sui muri, sempre più insegne, sempre più scritte pubblicitarie dovunque il tipografo giri gli occhi.» [Gianni Celati, Come fa il mondo ad andare avanti, in: Narratori delle pianure, Milano, Feltrinelli 1985, p. 53]

È roba scritta quasi quaranta anni fa, ma fotografa l’oggi: l’odierna macchina della comunicazione verbale, ovvero macina della parola. Parola dispersa, sperperata, prostituita. Elargita a piene mani, in tutte le direzioni, panìco agli uccellini o pastura per i pesci. Parola che illude e poi abbandona, suscita e poi atterra, consola e poi affanna. Vaporosa effervescenza del nulla.  Fata morgana della nostra sfiancata civiltà. Vento che urla prima e poi ammutolisce. Tempesta autorigenerante. Alluvionati, noi, dalle parole, naufraghi nella loro piena. Parole che leniscono, stordiscono, nascondono, consolano, corteggiano, lusingano, seducono. Suonano ma non creano, e soprattutto non rivelano. Tessono e infittiscono la trama del velo di Maya anziché sollevarlo, o strapparlo.

 “Niente sarà più come prima!”. Ricordo bene queste parole agli inizi della pandemia. Sentenza sibillina, slogan trombonesco, fuffa autoconsolatoria. Mantra gonfio del fiato nauseabondo della pietosa e sussiegosa Impostura. Umanesimo (o catastrofismo?) chiacchierologico. Schiumosa profezia di una imminente lavacro (con annessa palingenesi) della nostra razza. Balle di segatura. Tutto, infatti, è (rimasto) esattamente come prima. Anzi: forse peggio di prima. Ma la macina delle parole non ha memoria, e non ha requie. Sventaglia come sempre nel vuoto stupefacenti aromi di aria fritta. In questa atmosfera satura di vaniloquio l’unica parola che salva, quella della scienza e della poesia (e della profezia), è uno stormire di fronda nel fragore della bufera. Riesce a malapena a percepirla colui che la pronuncia.

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