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«È anche cosa osservabile che dei maestri i quali non siano assolutamente insigni in una facoltà, spesso sono adattati a insegnarla, e riescono a darla bene ad intendere, purché [1376] abbiano le altre qualità necessarie o proprie del bene insegnare, e indipendenti dalla cognizione della materia. Ma quegli uomini che si distinguono in questa cognizione, di rado assai troverannosi adattati a insegnarla, e gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina: eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella tal dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare.  […] E l’immaginazione necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici. V. altro mio pensiero sulla comunicativa degli scrittori, bisognosi di tenere a questo fine, alquanto di spirito poetico.» (G. Leopardi, Zibaldone 23 Luglio 1821)

Sono abbastanza d’accordo qui col mio Leopardi, geniale anche in questo caso – lui del tutto autodidatta e del tutto imperito di insegnamento, oltre che ignaro di ‘psicopedagogia’ – nel centrare il cuore del problema: per insegnare bene (comunicare efficacemente) ci vuole molta immaginazione, cioè empatia, capacità di sdoppiarsi, di calarsi nella persona del discente; direi a mio modo – se interpreto bene – la capacità e la pazienza di chiarire prima e semplificare poi a se stessi ciò che si vuole trasmettere, prevedendone (pre-valutandone) così l’impatto sia intellettuale che emotivo sulla personalità degli allievi. Questo è quello che chiameremmo noi oggi anche – e più banalmente – prepararsi bene la lezione. Chi non sa e non vuole affrontare questo lavoro preparatorio difficilmente potrà, per quanto colto e intelligente, essere un bravo insegnante.

Sono abbastanza d’accordo con Leopardi, ripeto, ma con un importante distinguo. La conoscenza profonda ed ampia della disciplina non è ininfluente – come sembrerebbe intendere L. – sull’efficacia didattica mediata da questa immaginazione. Tutt’altro. Perché più si conosce a fondo ed in ampiezza ciò che si insegna più si potenzia e si affina (se già esiste) quella nostra (di noi insegnanti) facoltà immaginativa. Perché avere molte ed articolate conoscenze ci permette più soluzioni, alternative e strategie didattiche (una maggiore fantasia ideativa e operativa, appunto), e soprattutto lascia margini molto minori all’errore, all’azzardo, al pressapochismo, al dilettantismo. Un conto è muoversi in mare con una zattera improvvisata di quattro metri quadri, un altro conto è navigare su di una grossa barca ben attrezzata… Voglio dire: essere ferratissimi in una materia può certamente non bastare ad insegnarla bene, se non si possiede la immaginazione di cui parla L. Ma a una conoscenza scarsa e vaga della disciplina nessuna genialità immaginativa e comunicativa riuscirà mai a sopperire del tutto.

Provate con tutto il solo vostro talento naturale da chef a cucinare ottimi piatti senza disporre di ingredienti e mezzi e conoscenze sufficienti e adatti allo scopo…

[Beninteso: L. ha ragione nel dire che l’immaginazione, che lui paragona allo spirito poetico negli scrittori, è più importante, e non solo nell’insegnamento, della dottrina. Ma esagera forse nel negare la rilevanza di quest’ultima: a questo proposito, per altro, è la parabola stessa della sua formazione intellettuale e letteraria a smentirlo o almeno a correggerlo, se è vero che la sua poesia maggiore si è prodotta soprattutto distillando nel tempo – alla luce del genio e della immaginazione, appunto – l’enorme e impoetica mole della sua erudizione giovanile e del suo studio onnivoro, matto e disperatissimo. Mi premeva commentare e discutere questo interessante pensiero leopardiano anche in relazione al diffuso disprezzo che il mainstream del pedagogismo nostrano ostenta per le conoscenze e i contenuti dell’insegnamento a esclusivo favore delle cosiddette, famigerate competenze. E mi premeva anche per prevenire una qualche ulteriore, astuta e strumentale appropriazione indebita di Leopardi (se essa non è già avvenuta) da parte – stavolta – degli attuali, fanatici crociati dei soft skills…]

Apprendo adesso con soddisfazione dal mio editore Ladolfi e dalla stampa della vittoria ex-aequo del mio libretto di poesie Pietra e farfalla al premio Cecco d’Ascoli 2023 per la poesia edita.

https://www.spazio50.org/ascoli-piceno-i-vincitori-del-premio-cecco-dascoli

https://www.ilrestodelcarlino.it/ascoli/cronaca/premio-cecco-dascoli-dalla-poesia-alla-prosa-ecco-i-nomi-dei-vincitori-cab14b29

« La scuola italiana è il regno della menzogna e finché resterà tale non potrà che peggiorare. Sulla carta tutto è previsto, tutto funziona, e alla fine tutti sono promossi. Ma la realtà [] è ben diversa. A cominciare ad esempio da quella che si cela dietro il mito dell’inclusione. In ossequio al quale nelle aule italiane — caso unico al mondo — convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazzi disabili anche gravi con il loro insegnante personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo.» (E.Galli della Loggia, Corriere della Sera, 12.01.2024)

Condivido in pieno. Spesso le esternazioni di Galli della Loggia sulla nostra scuola non mi entusiasmano affatto, perché le trovo troppo nostalgiche, preconcette e lontane da una conoscenza diretta della realtà attuale. Ma in questo caso la sua denuncia coglie nel segno. Anch’io, nel mio saggio autobiografico The dark side of the School, denuncio in termini molto simili la distanza tra apparenza (ufficiale, burocratica e propagandistica) e realtà effettuale della nostra istruzione. Drammatica distanza che fa il paio con quella, ancora più allarmante, direi ormai tragicamente scandalosa, della sanità pubblica. Si potrebbe dire che oggi un po’ tutto ciò che rimane del servizio pubblico sconta, in casa nostra, questa lacerante dicotomia fra apparire ed essere, intenzioni e realizzazioni, facciata e sostanza. Sarà sempre peggio, perché chi dovrebbe occuparsi del pubblico, cioè la politica, lo fa adoperandosi ormai unicamente, e spesso dichiaratamente, per la sua liquidazione a favore del privato. Salvo colmare poi la voragine di risorse materiali ed umane – che essa (politica) stessa ha scavato – con una montagna di retorica buonistica e solidaristica e/o cospargerla di un’aura (fritta) di innovazione aziendalistica e tecnocratica… Fuffa, schiuma verbale che nasconde a fatica, nel caso della scuola, la desolazione denunciata da Della Loggia. Per quanto in questa demolizione i vari governi si siano equivalsi ormai da parecchi decenni a questa parte, ritengo che la cosiddetta ‘sinistra’ abbia le responsabilità più gravi. In effetti mentre la destra, massacrando la scuola pubblica a favore di quella privata, non fa altro che realizzare con coerenza quello che promette, la sinistra (pur agendo sostanzialmente come la destra) è la parte che si adopera di più a nascondere, anziché a contrastare, lo scempio della nostra istruzione dentro la rosea nuvola di menzogna di cui sopra. Sarebbe certo una buona scuola quella dove i ragazzi con vari gradi di difficoltà o di deficit vengano selezionati e guidati, con percorsi mirati e insegnanti specializzati, verso un pieno ed autentico inserimento. In realtà non succede così: i ragazzi stranieri che non sanno ancora l’italiano vengono catapultati così come sono  in classi normali, anche di quarta o quinta superiore: “socializzando impareranno!” è il mantra, vale a dire: gettali in acqua e impareranno da soli a nuotare; e se poi dovessero affondare gli si lancerà una ciambella… Chi poi ha svantaggi oggettivi (e non sono tutti quelli che certificano di averli…) non viene aiutato a superarli con una didattica ad hoc, bensì soltanto facilitato – spudoratamente- esonerandolo da varie incombenze e spianandogli la strada comunque verso il pezzo di carta. Solo gli svantaggi più gravi ed evidenti si giovano del prof di sostegno, il quale però, per parte sua, è un semplice laureato in lettere o matematica che ha ricevuto in pochi mesi una impalpabile infarinatura di didattica “speciale”…   Classi, gruppi e (per)corsi differenziali sono stigmatizzati come il diavolo: guai a chi le nomina, discriminatore e razzista che non è altro! Eppure nella civilissima Germania essi esistono e come! Beninteso: nessun ragazzo deve essere ghettizzato, ma qualche ora o qualche periodo di separazione dalla classe di appartenenza per imparare meglio l’italiano o per seguire un insegnamento adatto ai suoi problemi non costituirebbe nessuno scandalo, anzi, potrebbe giovargli, in vista di un successivo inserimento, molto più che una prematura e forzata permanenza passiva (che talora diventa persino problematica e difficile, per lui e per gli altri) nel gruppo-classe. A occhi profani questa catechesi dell’inclusione può sembrare dettata da giustificati e nobilissimi motivi. In realtà, a guardar bene, essa è sostenuta da mere e bieche ragioni economiche: meno prof di sostegno e poco preparati, minori spese e minore impegno organizzativo per una didattica speciale e per corsi di lingua italiana… In compenso: anatemi e scomuniche gratuite verso quanti osino denunciare (per lo più qualche prof, più avveduto e coraggioso di altri) queste clamorose inefficienze mascherate da missione umanitaria.

È appena uscito nella rivista culturale Limina un mio articolo che rende, spero, il dovuto  - anche se tardivo – omaggio a Romano Palatroni, un grande ma dimenticato traduttore novecentesco di Baudelaire, del quale ho avuto modo di parlare in un altro post qualche anno fa. Ecco il link del mio articolo:

https://www.liminarivista.it/comma-22/campane-allimprovviso-romano-palatroni-il-traduttore-dimenticato-di-baudelaire/

Invito caldamente a leggere il pezzo per poter apprezzare la qualità a tratti squisita e unica delle traduzioni artistiche di Palatroni, un ‘dilettante’ di straordinario talento che solo la cattiva sorte e la marginalità geografica (meglio: ‘geo-letteraria’) ha condannato per decenni all’oblio, Solo pochi anni fa le sue traduzioni di Baudelaire e di altri grandi simbolisti francesi sono state ripubblicate grazie all’iniziativa appassionata e meritoria di Antonio Prenna, di cui per altro apprendo solo ora, con grande dispiacere, la notizia della recente e prematura scomparsa.

Buona lettura.

Tutti abbiamo ragione. Ciascuno ha le proprie ragioni. Tutti perciò abbiamo torto.

Oggigiorno spesso quelli (avidissimi) che dovrebbero sapere e saper fare non sanno o fanno male o fanno con scellerata negligenza. Quelli invece (avarissimi) che non sanno spesso pretendono di sapere e di saper fare. Due metà destinate o a non incontrarsi o a scontrarsi, nonostante (o forse proprio per) il comune denominatore dell’ignoranza…

Tragico che ognuno di noi si aspetti da tutti gli altri ciò che ciascuno di questi altri si aspetta a sua volta da lui e da tutti gli altri, specularmente. Ma uno specchio riceve e restituisce soltanto immagini. Fantasmi. Illusioni. Perciò gli illusionisti hanno oggidì tanto successo.

Ciascuno per sé, nessuno per tutti. Monadi senza sistema. Isole senza arcipelago. Atomi senza universo. Soli stantes in multitudine vasta.

Ciò che ci aspettiamo dagli altri è un diritto, ciò che gli altri si aspettano da noi è un attentato ai nostri diritti. Una pretesa, un privilegio o una rottura di scatole. Bellum uniuscuiusque erga unumquemque.

Giusto con i soldi oggi ti puoi comprare un favore o un aiuto – non dico un diritto. Ma spesso nemmeno con quelli.

Quando la politica non sa più cambiare in meglio la cosa pubblica allora inizia a blaterare in vano di cose private.

Le ideologie sono soprattutto maschere di bellezza per fessi, folli e filibustieri.

Il vittimismo è tra le più potenti ed abusate armi di ricatto e di prevaricazione. Una copertura nobile e sempreverde delle sopraffazioni e dei crimini più ignobili. Historia docet.

Dal vittimismo tutti abbiamo da (o cerchiamo di) guadagnare. Tutti, tranne le vere vittime.

La vittima (se è ancora viva) soffre in silenzio e protesta o combatte con dignità. I vittimisti urlano in piazza e straparlano sui media.

Il vittimismo è un formidabile lasciapassare a scadenza illimitata per aspiranti carnefici.

L’Italia è la patria elettiva del vittimismo. Pensate che annovera la percentuale più alta in Europa di campioni del chiagne e fotte. Quelli che si lamentano di essere derubati dallo stato mentre lo saccheggiano a man bassa. Quelli che piangono ingiustizia mentre prosperano anche o soprattutto a danno degli altri. Nessun governo li persegue, anzi volentieri li ‘condona’. Perché sa che unicamente con il loro consenso, da circa ottant’anni, in Italia si vincono le elezioni. Con qualsiasi bandiera ci si presenti.

PS di ‘autocommento’: Qualcuno penserà che traggo questi pensieri dall’attualità senza avere il coraggio di nominarla. È vero e non è vero. Mi ispiro anche all’attualità, ma non la inseguo. Se non la nomino non è per prudenza, diplomazia o vigliaccheria. È che non voglio fare affatto l’editorialista, non voglio aggiungere inutilmente la mia opinione sui fatti del giorno alle migliaia che ormai infestano quotidianamente i media e il web per sparire il giorno dopo. Trasformando l’attualità in considerazioni e in massime generali provo ad andare più all’essenza dei problemi della società e della natura umane, più in alto della contingenza. Così forse riesco a lasciare una traccia meno superficiale in chi legge, a stimolargli riflessioni meno scontate e meno spicciole, sottratte alla faziosità, o alla falsità o ai disperanti conformismi del nostro dibattito mediatico. Non nutro la presunzione di Seneca di scrivere per i posteri, ma di sicuro quella di trascendere il confine angusto dell’oggi. Così mi sento più libero e forse servo a qualcosa.

“…  didattica breve, didattica interdisciplinare, didattica delle competenze… Vediamo: che cosa possiamo inventarci adesso per giustificare gli extra che stanno per arrivarci in tasca… il capo dice che bisogna darci da fare per arraffare pure noi qualcosa … Dai, buttiamo un altro sasso in piccionaia! Diamogli in pasto, a quelli là, un altro di quei paroloni dei nostri, che suoni avanzato, pretenzioso, à la page; che li impaurisca ben bene, quelli là, ma che non dispiaccia al capo e ai suoi amici banchieri e confindustriali. Poi quelli là si arrangeranno, come sempre, a gratis. Armiamoci e partite! (ahahahah…) Che dici, va sempre tanto di moda l’orientamento: buttiamoci stavolta sulla “didattica orientativa”. Orientativa ai mestieri e al mercato del lavoro, s’intende, quella che tanto garba ai nostri amici della Fondazione… Che ne dici? Che è la solita pappa rimediata con la rigovernatura dei piatti, come quella di Gianburrasca? Che noi la spacciamo da anni sui nostri proclami cambiandole soltanto il nome? Eh, tranquillo, hanno tutti la memoria corta, nessuno se ne accorgerà! Suona troppo bene, perdinci, orientativo: moderno, aziendalistico, impattante, figo… abbastanza per mettere in soggezione e in agitazione tanti creduloni, ahahah… questo importa! Se poi quelli là ci chiedono (ma non lo faranno mai…) di spiegare concretamente che cos’è, diremo, come sempre, ai loro caporali e ai loro sindacati: che volete? C’è già una montagna di letteratura pedagogica su questo: la nostra anzitutto – quella dei nostri consulenti accademici e dei nostri formatori – ma pure in inglese, da anni! Il web ne pullula: saggi, articoli, webinar… e voi non la conoscete? E diffidate pure? Non sapete nemmeno, ignoranti, di che cosa si tratta? Che scandalo! E poi vorreste guadagnare come in Belgio o in Germania? Ma i prof belgi e tedeschi lo sanno bene di che cosa si tratta: figuratevi che già da vent’anni la mettono in pratica… [questa panzana, tranquillo, gliela possiamo impapocchiare perché della scuola belga e tedesca non sa un c… nessuno!] Vergogna! I professionisti dell’insegnamento siete voi… facciamo a capirci! Noi indichiamo la strada, «poi ogni istituto, con l’aiuto dei nostri tutor, la percorra con i mezzi che possiede e nei modi che crede: declini [bello eh: declini…, scrivi, scrivi, comincia ad appuntarti qualcosa per una ‘nota esplicativa ufficiale’, ihihih] declini l’orientamento didattico secondo lo spirito dell’autonomia » Che figata: declini… e poi: spirito! Sublime! Con tutto ‘sto latinorum qui parecchi di quelli se la faranno subito sotto! Siamo troppo forti!”

Intercettazione ambientale del tutto immaginaria (ma del tutto verosimile) captata da una talpa negli uffici di un certo Ministero… Chi avesse invece tempo da perdere o necessità (ahilui, non lo invidio..) di sapere seriamente di più di questa ennesima parola d’ordine inflitta con dolo e con danno alla nostra scuola per evidenti secondi fini e per indicibili guadagni, si rivolga altrove, perché il web ne pullula, appunto. Io invece oramai rinuncio a scalare certe altezze… De hoc satis. Per me parli il sergente Murtaugh di Arma letale: « Sono troppo vecchio per queste str…te!».

«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! […] Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.» (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. VIII)

Prima parte dell’arcinoto Addio monti manzoniano. E adesso, a fronte, un passaggio di Tempi difficili di Dickens:

«[…] Se ne andò sul far dell’alba abbracciando con lo sguardo, per l’ultima volta, la stanza e chiedendosi se l’avrebbe rivista mai più. La città era vuota come se gli abitanti avessero preferito abbandonarla che avere con lui un qualsiasi contatto. A quell’ora le cose sembravano diafane e sbiadite. Perfino il sole nascente pareva una chiazza pallida nel cielo simile a un mare triste.  Passò […] lungo vie fiancheggiate da case di mattoni rossi; passò accanto alle grandi fabbriche immerse nel silenzio, non ancora scosse dai fremiti delle macchine; accanto ai binari dove le luci di segnalazione sbiadivano pian piano, sopraffatte dal chiarore del giorno; accanto agli assurdi quartieri intorno alla ferrovia, costruiti a metà e a metà diroccati; accanto alle ville di mattoni rossi, sparse qua e là, dove sempreverdi, ormai affumicati e cosparsi di polvere nera, sembravano sudici fiutatori di tabacco; lungo sentieri ricoperti di scorie di carbone; accanto a una grande varietà di brutture, fino a che, raggiunta la sommità del colle, non si voltò a guardare indietro.  Un sole radioso splendeva sopra la città e nelle fabbriche le sirene annunciavano l’inizio del lavoro. Nelle case non era stato ancora acceso il fuoco, e le alte ciminiere avevano il cielo tutto per loro. Fra un po’ avrebbero nascosto l’azzurro con i loro sbuffi di fumo velenoso, ma, ancora per mezz’ora, le finestre sarebbero state d’oro sotto i raggi del sole; poi la gente di Coketown vi avrebbe visto, attraverso i vetri sporchi di fumo, un sole in fase di eterna eclissi.  Che strana sensazione allontanarsi dalle ciminiere, vedere gli uccelli, sentire il loro canto! Che strana sensazione avere sui piedi la polvere della strada invece della polvere del carbone! Che strana sensazione trovarsi a cominciare tutto da capo alla sua età, come un ragazzo, in quella mattina d’estate! Con questi pensieri nella mente e il fagotto sotto il braccio, Stephen si volse a guardare, assorto, la strada maestra.» (Tempi difficili, parte II, cap. 6)

Non so se Dickens tenesse presente o meno, scrivendo questo pezzo, il passo manzoniano. Improbabile, anche se non impossibile, dato che I promessi sposi erano discretamente noti a metà dell’Ottocento negli ambienti letterari inglesi. Oggettivamente, che risenta o no di una suggestione manzoniana (più o meno consapevole), il pezzo di Dickens è comunque un ideale, scioccante controcanto all’Addio monti. Narrativamente, un esodo il primo e uno speculare ‘controesodo’ il secondo: rispettivamente dalla campagna alla città e dalla città alla campagna. Ma metaforicamente entrambi sono immagine della dilemmatica oscillazione tra visioni ( o aspirazioni o condizioni) opposte e complementari della vita moderna: dalla natura alla anti-natura e ritorno; dalla (presunta) felicità all’infelicità (certa) e viceversa. Manzoni parla di una migrazione forzata e dolorosa; Dickens di una fuga liberatoria. In mezzo però, punto indesiderato di arrivo prima e poi di partenza, rimane sempre la città: prigione volontaria, male assoluto ma necessario, luogo dell’inumano stipato di umani, vertice e abisso della civiltà evoluta, ombelico e cloaca dell’universo industriale, madre e figlia del nostro sviluppo senza progresso… Un primo e lontano germe di consapevolezza di questa drammatica e direi fondante antinomia del nostro mondo c’era già nel secondo libro delle Georgiche. Ma il vecchio Virgilio non poteva avere ancora sentore della esponenziale e potenzialmente distruttiva escalation dello sviluppo urbano/industriale di oggi. Cosa di cui Dickens (et pour cause) possedeva invece, più di Manzoni e già a metà dell’ottocento, chiarissima consapevolezza.

Il mio pamphlet autobiografico The dark side of the school – autobiografia (a)tipica di un prof ha ottenuto una menzione speciale per la saggistica dalla giuria del premio “Giulio Angioni” di Guasila (Cagliari). https://www.unionesarda.it/cultura/guasila-premio-letterario-giulio-angioni-2023-tutti-i-finalisti-ephb4olv

La scuola è ricominciata da poco. E quando la scuola ricomincia se ne parla un po’, come da rito, sui media, così come se ne parla un po’ anche a giugno, al termine delle lezioni. Poi, per lo più, cala il silenzio, salvo occasioni eccezionali o pretestuose. Chiacchiere comunque scontate che non vale in genere la pena né di leggere né di commentare.

Quest’anno invece mi hanno colpito, per opposti motivi, un paio di cose uscite a breve distanza di tempo entrambe su La Stampa. La prima è un articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati pubblicato l’11 settembre scorso e intitolato la scuola al via: gli insegnanti sono la luce. Ne riporto alcuni passaggi:

« Le norme grigie che strutturano il tempo scolastico (calendari, riunioni, programmi, valutazioni, ecc.) favoriscono la sua rappresentazione come una istituzione condannata a una ripetizione senza sorpresa. Un peso al collo o una condanna nel vissuto di molti studenti. Una incombenza necessaria in quello di molti insegnanti. Il processo di istituzionalizzazione della Scuola tende infatti a consumare anche i migliori. È quella che ho definito altrove l’anima grigia dei dossier, il feticismo del numero, l’assillo della quantificazione. […] Questa riduzione del sapere a un sapere morto scoraggia l’entusiasmo dell’apprendimento e ribadisce la sua separazione dalla vita. A cosa serve apprendere, studiare, sapere se poi l’impatto con la vita ne rivelerebbe fatalmente l’inutilità? La formazione scolastica sarebbe allora una perdita di tempo, un ritardare inutilmente l’inizio dell’attività lavorativa, come sostengono anche noti imprenditori del nostro paese? Dovremmo sempre, oggi più che mai, contro discorsi simili, ricordare la centralità della scuola non tanto come luogo di accumulo di informazioni, ma come luogo insostituibile di formazione. L’esperienza della Scuola non è solo esperienza di una routine mortifera, ma anche della luce del sapere: il sapere non è un libro morto, ma un libro vivo, non è una passione triste ma una passione erotica. Ma questa luce deve essere testimoniata da chi insegna. […] L’esperienza della luce richiede sempre dedizione, cura, attenzione. È quella che molti hanno avuto la fortuna di incontrare nei propri maestri. Diversamente, la distrazione svia da ogni possibile cura. Ecco la testimonianza difficile a cui sono tenuti i nostri insegnanti. Dare prova di una concentrazione che non sia una forma ottusa del rigore, ma una cura. Essere concentrati sulla propria pratica è, del resto, la sola salvezza possibile per non cadere in una ripetizione scolastica del sapere che stroncherebbe anche gli spiriti più nobili. È la solitudine inevitabile che accompagna ogni insegnante: restare concentrati sul proprio lavoro, restare prossimi alla cosa, non lasciarsi distrarre dai rumori del mondo.»

Parole sante, specie queste ultime. Contro la diffusa burocratizzazione della vita scolastica e la minaccia tecnocratica incombente della sua trasformazione in puro addestramento pratico e professionale Recalcati ripropone (sulla scia del suo bel libro L’ora di lezione) una visione alta e disinteressata di scuola come luogo – lo chiama lui – di erotizzazione del sapere e della cultura. Erotizzare sapere e cultura significa per Recalcati non sostituire i contenuti delle discipline umanistiche e scientifiche con ‘educazioni’ spicciole né con più banali e brillanti argomenti à la page, bensì rendere desiderabili proprio quei contenuti spostando sempre più in là, con un metodo che definirei fondamentalmente socratico, il limite della conoscenza: suscitando cioè dubbi e interrogativi, stimolando la curiosità, promovendo la partecipazione emotiva e lo spirito critico. Il prof vero secondo Recalcati è (ha da essere) un portatore di luce. Un maestro. Uno che non si abbassa alla sottocultura di massa ma innalza i suoi studenti alla cultura autentica. Obiettivi ambiziosi ma fondamentali per salvaguardare e incrementare la qualità dell’insegnamento. Obiettivi che purtroppo la scuola reale e quella progettata (ed in fieri) dalle riforme ministeriali (ne ho scritto anche troppo) sembrano ignorare o addirittura contrastare.

La strada maestra indicata da Recalcati non è a mio avviso per niente affatto anacronistica né astratta, specie se pensiamo alla scuola liceale: se da decenni questa strada non viene più seguita questo accade da noi non per una inevitabile cambiamento imposto dai tempi ma per una precisa scelta politica e dirigenziale. Non è infatti soltanto la grigia burocratizzazione denunciata da Recalcati a depauperare la scuola e a deprimerne l’efficacia didattica ma sono anche e soprattutto, nella scuola ‘autonoma’, il trionfo, pilotato e caldeggiato dall’alto, dei progetti più balzani e peregrini sopra la programmazione disciplinare e l’invadenza sistematica di attività ludiche e promozionali in sostituzione (e a crescente discapito) della lezione ordinaria: proprio quella nella quale il prof dovrebbe illuminare gli allievi concentrandosi e concentrandoli sui tesori della sua materia. Invece la lezione ordinaria oramai viene additata con disprezzo dai soloni ministeriali come anticaglia sacrificabile a qualsiasi altra attività-paccottiglia-bigiotteria di quelle nominate sopra. Ma lasciamo stare…

Un altro scritto recente sulla scuola che, per contrasto, mi ha molto intrigato e spiazzato è stato un bel racconto di Monica Acito uscito un mese prima nell’inserto letterario dello stesso giornale (Tuttolibri/La Stampa del 12.08.23). Il racconto si intitola La buona educazione e la storia è narrata in prima persona da una immaginaria, giovane ma poco ‘motivata’ insegnante di scuola superiore, certa prof Macrì. Eccone qualche stralcio (e tenetevi forte…):

« Ritorno alla cattedra e ripren­do a sproloquiare su Dante, virtù e cono­scenza. Ormai non so più cosa sia manco la digni­tà, quando ti metti a fare questo mestiere fir­mi col sangue una clausola in cui rinunci a ogni tipo di rivendicazione di fierezza, intelligenza o altro; non so più nemmeno che cosa sia la vergogna, infatti riprendo a spiegare come se nulla fosse, tutto viene tamponato da una garza che è nascosta da qualche parte del mio corpo, mi passo un fazzoletto gigante sulla bocca umida dello stomaco, tutta la rabbia rimbalza in qualche parte di me che non conosco e poi riemerge di notte, mi risale sulla bocca sotto forma di fiotto acido oppure mi risale dal pube mentre sto facendo sesso, ma mi risale sotto forma di secchezza, blocco e siccità. […] Quando un docente riesce a gestire gli alunni, si dice che «sa tenere la classe». Io la classe non la so tenere, e quando io e Emilia Pinto, la docente di inglese, ci dia­mo il cambio, gli alunni si mettono tutti sull’attenti, sembrano soldatini di piombo, fiammiferi spenti che si mettono in piedi e la ossequiano. Con me, invece, fanno quello che voglio­no, perché io non so tenere la classe, e loro se ne accorgono: agli alunni non puoi na­scondere niente, ti entrano nel corridoio dei pensieri, edificano stanze nella tua mente e si ficcano nel letto pure mentre stai chiavando, ti fissano nella penombra men­tre lo stai prendendo in bocca, sono degli spiritelli cattivi a cui non posso celare nem­meno i miei pensieri più segreti, hanno gli occhi appuntiti e lucenti come quelli dei ro­ditori. Io non so più cosa fare con questi alunni, vedo le loro code che sgusciano ovunque, il sabato e la domenica non lavo­ro e rimango nel letto fino all’una, perché mi sento il canale di scolo dell’umanità, co­me se tutto il materiale di scarto del mondo si fosse calcificato sulla mia pelle e io fossi fatta di squame di nausea. Certi giorni mi chinerei sul cesso e mi metterei a vomitare ogni lettera del mio no­me e del mio cognome, mi metterei a vomi­tare i miei capelli, le mie ciglia, le pupille dei miei occhi liquefatti, tirerei lo sciacquo­ne e andrei a inquinare qualche oceano con quello che rimane di me. Io non ci voglio più entrare in classe, io non le voglio più sentire le mie colleghe che in sa­la docenti si organizzano per fare attività, la­vori di gruppo, cooperative learning, flipped classroom, proiezioni di video, uscite didatti­che, io non so insegnare, e sto facendo que­sto solo perché non so fare niente altro. […] Oggi Martina C. ha esagerato. Mentre spiegavo la latitudine e la longi­tudine nell’ora di geografia, per sbaglio ho confuso meridiani e paralleli perché l’ulti­ma per me è particolare: all’ultima ora, io in realtà non ci penso a cosa sto spiegando, perché non vedo l’ora di correre in macchi­na e fiondarmi nel mio monolocale, per ap­parare una bella piadina farcita di speck in offerta, mozzarella cruda, rucola in busta e maionese mischiata con la salsa barbecue, pure quella in offerta. «La Macrì non sa manco cosa sono i meri­diani e i paralleli, forse le manca la prima media»: Martina C. bisbiglia a Larisa, l’alunna nuova, e quando Martina C. bisbi­glia, sembra una piccola volpe. Larisa an­nuisce e Martina C. le dice, scandendo be­ne le parole «Lo tiene scritto in faccia che nemmeno stanotte ha scopato». Larisa ridacchia e mette un astuccio da­vanti al musetto, e Martina C. scandisce di nuovo bene le parole: «Se scopava, vedi co­me se li ricordava bene i meridiani e i paral­leli!», e Martina C. e Larisa fanno dei cerchi con le dita e dentro ci infilano dei pennarel­li, poi li tolgono e ce li infilano di nuovo, si mettono a stantuffare con le dita pensando che io non le veda.

Sconvolgente, no? E non certo (o non soltanto) per il linguaggio. Vorrei tanto che questa immaginaria prof.ssa Macrì non esistesse. Non fosse mai esistita se non nella testa della sua inventrice. Meglio: vorrei non essere mai stato – non essermi mai sentito – neanche un po’ come lei. Vorrei sentirmi solo ed unicamente come il prof di Recalcati. Ma mi trastullerei, da narciso, in un concetto del mio mestiere troppo alto per essere del tutto credibile. Mentirei con me stesso e con i lettori. Perché questa figura di prof, ahimè, come tutte le figure inventate dalla penna di uno scrittore degno di questo nome (e qui, secondo me, Monica Acito riesce ad esserlo), è più vera (= verosimile) di quelle reali. La sua prof è il contraltare (iper)realistico del prof ideale di Recalcati: è uno specchio crudo della condizione professionale e soprattutto sociale e psicologica dell’insegnante attuale. C’è un gioco rivelatore di specchi, appunto, in questo racconto: lo specchio torturante dello sguardo adolescente che trafigge l’amor proprio della prof inchiodandola a una immagine intollerabile di sé e quello della pagina scritta che riflette sul lettore, senza veli, il depresso e deprimente vissuto interiore dell’io narrante, la sua devastata autostima.

Il re è nudo. La prof Macrì, in senso fisico e metaforico, si sente e ci si mostra nuda. Ogni prof, d’altronde, quando entra in classe, è nudo. Non ha veli né armature né scudi. Deve mettersi in gioco per quello che è, non illudersi di cavarsela, oggi meno che mai, recitando bene una parte.

Se ubbidissi allo spirito di corpo e all’orgoglio di scuderia obietterei a Monica Acito le solite cose: che una prof scoppiata ed incapace come la Macrì non rappresenta quasi nessuno, che professionalmente la media degli insegnanti italiani è molto più preparata e dignitosa di lei ecc… ma anche se queste obiezioni d’ufficio avessero, come credo, un fondamento, sfido chiunque fra i miei colleghi a giurare di non essersi sentito mai, nemmeno una volta, in una condizione interiore simile a quella confessata dalla protagonista. Spergiurerebbe, perché purtroppo questo racconto coglie nel segno della micidiale asimmetria del rapporto docente-alunno. Una asimmetria che si è ingigantita, fino ad esplodere, negli ultimi decenni per il venir meno di ogni principio di autorità e per il concomitante precipitare della condizione professionale e della considerazione sociale dell’insegnante medio italiano. Un racconto così ci rappresenta in certa misura, tocca ammetterlo. È uno schiaffo salutare. Di quelli che solo la buona letteratura è capace di assestare. Perché solo l’onesto riconoscimento del peggio che ci abita e che ci circonda può permetterci di riscattarlo. Di camminare, nel nostro caso, nella direzione auspicabile, nobile e ideale ma tutt’altro che utopica, indicata da Recalcati.

Un mondo, il nostro, dove tutti reclamano tutti i diritti, compreso quello di non avere doveri.

Un mondo, il nostro, dove tutto si fa per la fama, nulla per la gloria: fama ad ogni costo, gloria a nessun prezzo.

Un mondo, il nostro, dove a praticare l’anticonformismo, un tempo prerogativa degli intelligenti, sono sempre di più gli idioti. Più pericolosi, per altro, che inutili.

Un mondo, il nostro, di piazzisti. Vecchi, nuovi, nuovissimi, inediti. Per vocazione e per forza. Dichiarati o camuffati. Seguaci tutti di Ermes. Contafrottole, quasi tutti, più e meno spudorati. Cacciatori di clienti. Un mondo di piazzisti è deserto di certezze, disertato da Onestà e da Verità. Affollato dai fantasmi di Inganno, di Lusinga e di ardente ed occhiuta Fregatura. Un mondo dove chi può si difenda e si salvi, da solo.

In questo nostro mondo ogni piazzista, incontrando il cliente, sente di guardarsi allo specchio. E viceversa. In questo nostro mondo, insomma, cliente e piazzista siamo spesso la stessa persona: Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Due personaggi e un interprete. Schizofrenico gioco delle parti. E quello che uno fa da piazzista non vuole certo che gli sia fatto da cliente, e viceversa… Qui sta il busillis.

In questo nostro mondo di piazzisti mai svegliare cliente che dorme. Anzi: mettergli possibilmente un bel sonnifero nelle crocchette.

La follia può talora essere innocente, mai innocua.

Chi vuole impórti un linguaggio vuole impórti un pensiero.

A forza di cucire addosso al(la) re(altà) tante belle vesti immaginarie non bisogna poi strapparsi le proprie se il primo (finto) scemo che capita ce ne sventola davanti a tutti, tra lo stupore e l’approvazione generale, la lampante e squallida nudità.