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Posts Tagged ‘realtà’

I Social Network sono una nuova caverna? | by Jeshua Stenta | eMemory

Puoi distorcere la realtà (e negare la verità) per ideologia o per interesse.

Ma la distorsione prodotta dall’ideologia è molto più grave e molto più pericolosa di quella prodotta dall’interesse.

Perché chi è mosso dall’interesse smetterà di distorcere e di negare quando la realtà comincerà a incalzarlo e la verità ad accecarlo.

Chi è preda invece di una ideologia – il più grande e il più sistematico e il più opaco e pretenzioso dei pregiudizi – è in buona fede, purtroppo.

Non si lascerà né minacciare né accecare. Perché, ahilui, è già ceco. O ipovedente.

L’ideologia è una benda sugli occhi o un pessimo paio di occhiali che affoga i colori del mondo in una nebbia monocroma, o in un vortice fantasmagorico di illusioni.  

L’ideologia ti inchioda ad una geometrica, morta controfigura della realtà. Ma la realtà è viva e informe, e scappa via, velocissima, tanto veloce che i più bravi tra noi riescono al massimo ad avvicinarla, mai ad agguantarla…

L’ideologia ti impedisce di capire e di godere della varietà e della pluralità del mondo.

Ti proibisce di abbandonarti al flusso libero e imprevedibile della vita.

Ti impedisce di godere del rapimento dell’arte. Della bellezza vivificante del dubbio. Dell’estasi della ricerca.

Ti offre risposte pericolosamente facili a domande terribilmente complicate.

Rinchiude l’incertezza sconfinata della libertà nella falsa sicurezza di una gabbia angusta.

Scambia l’indagine della verità con l’idolatria delle proprie proiezioni mentali, come succedeva ai prigionieri nella caverna di Platone.

L’ideologia è gemella della stupidità, sorella della malattia mentale, parente di certe forme di religiosità. Quelle, per capirci, che ti offrono, in cambio della tua devozione, una salvezza precotta e una comoda verità preconfezionata.

L’ideologia invade i gangli del tuo cervello. È un Alzheimer precoce. Pensa al tuo posto senza che tu te ne avveda. Perché tu ti sei arreso a lei come ci si arrende, in cambio di un conforto avvelenato, alle seduzioni di un paradiso artificiale.

Uno dei sintomi più rivelatrici e allarmanti della malattia ideologica è la negazione ostinata di essa.

Non c’è peggior malato di ideologia di quello che nega di esserlo.

Non a caso il nostro tempo, che si professa convintamente antiideologico, è – per molti versi – più ideologico ancora dei tempi che l’hanno preceduto.

Ai primi sintomi di malattia ideologica guardati bene allo specchio. Meglio: fatti vedere da uno bravo. Presto. Prestissimo. Prima che non ti accorga più di essere malato. Prima che tu creda di essere più sano, più giusto, più onesto e più intelligente di tutti gli altri. Perché quello è l’ultimo stadio della malattia. Il più (auto)distruttivo.

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L'Orologio dell'Apocalisse fermo nel 2019, ma l'umanità è ancora qui -  Positanonews

L’economia attuale muove dal desiderio più che dal bisogno. O forse dal desiderio trasformato ad arte in bisogno. Insomma: dal principio del piacere. Compito della scienza è richiamare, nel modo più rigoroso e consapevole, al principio di realtà. Compito della scienza, perché la politica a questo compito ha ormai completamente abdicato. Tristo e sgradevole compito, ma necessario per un progresso e un benessere adulti e sopportabili. La sfida oggi è questa, più che mai. Oggi, che gli uomini sono mentalmente sempre più succubi del desiderio infantile gonfiato e titillato a (illimitata) dismisura dalle irriducibili illusioni dello sviluppo, mentre la realtà del mondo in cui vivono si avvia a diventare una sua arcigna, sempre più spietata, fustigatrice. Noi tutti si vive in una grottesca sfasatura. In una drammatica convergenza di processi opposti. Arriverà, temo, il punto di deflagrazione. Il corto circuito che innesca l’ecpyrosis universale. Forse ci siamo già arrivati, ma non riusciamo ancora a realizzarlo. La scienza deve avere il coraggio di svegliarci dal sortilegio prima che la scintilla fatale scocchi. Di richiamarci, come l’antico oracolo di Delfi, al senso smarrito del limite. Prima che quel limite ci si pari davanti come una muraglia invalicabile.  La scienza, proprio lei, con tutta la sua piccolezza e la sua urtante e grigia e fredda imperfezione. La scienza, con il suo compunto linguaggio da confraternita dei flagellanti. Cos’altro? Tutto il resto (quel che sopravviverà) verrà poi per un di più, se mai riusciremo – per mezzo suo – a salvarci.

Avremmo dovuto capirlo prima. Eppure già il vecchio Epicuro l’aveva capito: il principio del piacere (alias il desiderio) è il nostro dio e la nostra nemesi. Lo si può assecondare (e goderne) impunemente (cioè legittimamente) soltanto imparando a rinunciare. Semplice a dirsi. Ma complicatissimo a farsi, oggi più che mai, quando non bastano più gli anticorpi della saggezza individuale per difendersi dentro un sistema economico totale. Una locomotiva che, per perpetuare la sua corsa, deve tenere il motore del desiderio perennemente accesso, a pieni giri.

La scienza è neutrale, gli scienziati un po’ meno. Perché sono anch’essi fatti come noi di desiderio. Sono uomini. E gli uomini preferiscono, per istinto, la tenebra del desiderio al lumicino della scienza.

Attorno al rigagnolo vivo, ma esile e sussurrante della scienza gracidano i rospi della politica, squittiscono i ratti dell’informazione. Attingono a quell’acqua per farne, mescolandola alla loro liscivia spumeggiante, bolle di sapone. Bolle enormi, luminescenti, che deflagrano immantinente, aria nell’aria.

Solo l’arte e la poesia ci possono consolare delle verità della scienza. Solo la scienza ci può salvare dalle fate morgane del desiderio, e dagli incantatori che le eccitano dalle sabbie del deserto. Solo l’arte e la poesia possono fare di quelle fate morgane la materia di rivelazioni ingrate e, insieme, gratificanti ed utili. E perciò magicamente esorcizzarle. Smascherarle e riconoscerle rappresentandole. Trasformare le Erinni cieche del desiderio in docili, ragionevoli Eumenidi. E così agevolare il compito della scienza.

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Dài una bandiera a un folle e la userà come un’arma. Anche contro di te.

La più sconcertante stupidità e abiezione di quanti vivono nel pregiudizio consiste in una infrangibile presunzione di intelligenza. Che sussiste e si rafforza solo condividendo il pregiudizio con altri individui, altrettanto stupidi e abietti. Perciò il pregiudizio, se non è diffuso, deve almeno – per sopravvivere – essere settario: non riuscirebbe mai, come la verità, a camminare sulle gambe di un eroe solitario.

Bisogna riconoscere al pensiero politically correct almeno un pregio: quello di predicare tra una massa di bruti un vangelo di bugie o di mezze verità utili, talvolta, ad alleviare qualche nostra inutile pena.

Amore è parola grande e preziosa e nobile che ne contiene molte altre, molto più piccine, vili, ignobili, persino indicibili.

A una persona dalle belle parole preferisco le parole di una bella persona.

A teatro, sere fa. I miei studenti recitavano l’Andromaca di Euripide. Stare a teatro (quando si fa buon teatro) è l’esperienza di un confine magico: quello tra la realtà e la verità. Noi, spettatori, – al di qua di quel confine – sprofondati (stretti nelle nostre poltroncine, soffocati dai nostri vestiti) nella penombra della realtà. Loro, gli studenti-attori, trasfigurati nella luce della verità, liberi di muoversi fuori dal tempo e dallo spazio in cui noi eravamo imprigionati. Ragazzi e ragazze che vedevo tutti i giorni ridere, strillare, scartocciare merendine, sfogliare libri, spettegolare, litigare… lì erano diventati carne e sangue, volto e voce di archetipi delle passioni e della sofferenza umana: Andromaca, Ecuba, Ermione, Menelao, Peleo. Altri da sé. Così, come straniati ciascuno, ma con tutto se stesso, nell’estasi del mito.

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Guardati dal cervello che deflette: il deflettore infatti concentra l’energia e la bellezza della luce del sole in un micidiale raggio ustorio.

Ai grandi moralisti non si perdonano nemmeno le più veniali ed insignificanti trasgressioni della morale.

Ai piani bassi ed infimi del potere (di qualsiasi potere – e specialmente in Italia) domina – per forza di analogia e di gravità – la Bassezza. Nella sua forma più greve, sordida, irredimibile, escrementizia. Senza l’attenuante della necessità superiore che la riscatta tragicamente, quando per caso s’aggiri nei piani alti.

Le parole parlano solo in apparenza e in superficie di questo argomento, di quell’altro o di quell’altro ancora. In realtà e in profondità esse parlano soltanto o soprattutto di colui che le pronuncia.

Mai viene primo nell’ordine della realtà ciò che primeggia nell’ordine del desiderio.

La comodità è la madre di molteplici vizi: per comodità – per il vantaggio cioè di abdicare allo scomodo tremendo della scelta responsabile – gli esseri umani gettano mozziconi di sigarette per strada, sprecano acqua lavandosi i denti, si recano al bar sotto casa in auto, sottostanno spontaneamente ai più folli o feroci padroni.

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