Paride il pittore dipingeva ritratti di gentildonne. Le necessità del mestiere lo induceva a farle più belle di quanto fossero nella realtà. Nonostante ciò, quelle erano perennemente insoddisfatte. Un giorno, libero dalle commissioni e stanco della maniera stilizzata in cui le convenienze della bottega sempre lo costringevano, in un impeto di libera ispirazione prese la tavolozza e cominciò a schizzare sulla tela una figura immaginaria di donna dai tratti alterati e caricaturali: naso aquilino, labbra gonfie, zigomi sporgenti…
Espose il quadro in vetrina, sicuro di far colpo. Ci riuscì, perché le gentildonne sue clienti, passando davanti alla bottega, cominciarono con disappunto a riconoscere, in quel ritratto, l’una il proprio naso, una seconda le proprie labbra, una terza i propri zigomi. Protestarono tutte con Paride, vivacemente, perché ritenevano che il pittore avesse voluto con quel ritratto prendersi gioco di ciascuna di loro, esibendo gratuitamente i difetti che, per denaro, nascondeva. Paride rimase sconcertato, ma non si sforzò di proclamare la propria buona fede. Anzi ammise, mentendo, che sì, era vero: aveva intenzionalmente radunato nel dipinto le loro deformità, perché confessassero a se stesse le magagne che ogni giorno vedevano allo specchio e la smettessero di chiedergli di medicarle con la bellezza della pittura. Chi si riconosce infatti in una sgradevole immagine prodotta dalla fantasia dell’arte è necessario che possieda nella realtà della sua persona la sgradevolezza che tanto, a quella vista, lo offende. Inutile aggiungere che Paride, da quel giorno, perse la sua clientela…